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IL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO
30 Ott 2011 07:25
L’articolo 67 della Costituzione della Repubblica italiana prevede che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
Lo scopo di tale previsione è di garantire la libertà più assoluta ai membri del Parlamento. I costituenti, per garantire una democrazia piena, ritennero opportuno che ogni parlamentare non fosse vincolato da alcun mandato né verso il partito cui apparteneva né verso gli elettori.
I deputati, dunque, esercitano la rappresentanza della Nazione e cioè non dei singoli cittadini ma dei cittadini nel loro complesso, ed ancor meno dei partiti, delle alleanze, dei movimenti o dei gruppi che ne hanno sostenuto l’elezione. Non sono revocabili in nessun caso dagli elettori; sono liberi di assumere in Parlamento posizioni diverse da quelle sostenute nella campagna elettorale; se un parlamentare abbandona il partito nel quale è stato eletto rimane ugualmente membro del Parlamento fino al termine del suo mandato.
Né qualsiasi tentativo di legare il parlamentare eletto ad una maggioranza precostituita (misura “anti ribaltone”) può essere oggetto di una qualsiasi legge ordinaria come, per esempio, la legge elettorale, essendo la norma in questione una norma costituzionale.
Dal punto di vista strettamente giuridico ciò si spiega perché il rapporto che si instaura tra il parlamentare e i suoi elettori non è un rapporto privatistico di mandato ma è un rapporto “politico”. E’ vero che l’elettore sceglie la persona cui dare il suo voto in base al suo orientamento politico e alle scelte che egli spera che poi il parlamentare farà una volta eletto. Ma è anche vero che se il parlamentare si comporterà poi in parlamento in maniera difforme da come aveva promesso ai suoi elettori, questi avranno lo strumento politico di negargli la rielezione nelle elezioni successive.
Il discorso in effetti funzionava abbastanza bene con la legge elettorale in vigore all’origine, quando l’elezione del singolo parlamentare dipendeva prevalentemente dalla sua forza elettorale e molto meno dalle decisioni del suo partito di appartenenza.
I padri costituenti, che avevano la memoria recente del fascismo, si erano posti il problema di impedire che il Presidente del Consiglio potesse di nuovo trasformarsi in dittatore e per questo avevano sancito un forte potere di controllo del Parlamento sul governo. L’art. 67 della Costituzione comporta che il Presidente del Consiglio non possa condizionare i parlamentari della maggioranza, ma deve convincerli della bontà delle leggi che propone. Il divieto di mandato imperativo era il vincolo più forte che i Costituenti avevano immaginato. Non si poteva allora, e a dire il vero neanche molti anni dopo, prevedere che un Presidente del consiglio, miliardario e padrone del partito di maggioranza, potesse far eleggere i suoi dipendenti e ritrovarsi ad essere il datore di lavoro dei suoi parlamentari, con il potere di licenziarli se gli votavano contro. Né che lo stesso fosse un “utilizzatore finale” di prostitute e ne compensasse i meriti sessuali mettendone i nomi nelle liste elettorali.
Con l’attuale legge elettorale “porcellum” in cui l’elettore esprime il suo voto per la lista ma non per il candidato, i parlamentari sono di fatto legati ad un mandato imperativo dei partiti perché, in caso di comportamenti indipendenti, rischiano la ricandidatura alle successive elezioni. Quindi, non solo non c’è alcun vincolo formale rispetto agli elettori, ma c’è un vincolo sostanziale rispetto al partito, agli altri eventuali interessi organizzati e al Presidente del consiglio che è espressione della maggioranza. In tal modo, viene proprio incentivato il mandato imperativo nei confronti del partito e, in caso di “disubbidienza”, il trasformismo dei parlamentari che migrano da un partito all’altro, scegliendo quello che meglio gli garantisce la carriera politica.
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