I SENTIERI CHE SI BIFORCANO SUL COLLE DI SAN MATTEO

Quando l’uomo delle Istituzioni, insignito alla tutela dell’incolumità pubblica, pone una transenna ad inibire un passaggio, il cittadino riguardoso delle forme democratiche non può esimersi dal rispettare il vincolo, dunque spegnendo la fotocamera del mio smartphone sul limitare di una dell’antiche porte cittadine di Scicli superiore, lascio nel dubbio il lettore, al primo bivio, non chiarendo se abbia o meno proseguito oltre nel cammino verso l’erta del colle di San Matteo. Temo di non aver compreso quanta differenza ci sia – e se la porzione percentuale è rilevante da un punto di vista ultrasimbolico – tra il pericolo in cui potrei incorrere facendo un bagno a mare in Dicembre, o viaggiando in auto per le disastrate vie della penisola, e quello riguardante l’eventualità non remota di una caduta massi in un sentiero montano-collinare. Tuttavia, lo Stato – di cui io stesso sono parte – non solo mi sconsiglia ma nel caso specifico addirittura mi vieta di valicare il limite imposto per legge (in pratica, io stesso mi sto obbligando a non correre un possibile pericolo). Il vandalo, tra l’altro, non ritenendosi probabilmente parte integrante dello Stato, nelle settimane scorse è stato causa di alcuni sfregi ai danni dell’antica matrice cittadina, per cui la preclusione assoluta al transito da parte delle Istituzioni, assume un senso anche in seguito a questa incresciosa vicenda. In conseguenza a ciò sarò costretto a parlare al passato, ossia quando ancora lo Stato mi consentiva di salire – e io lo facevo con frequenza quotidiana – presso la sede dell’antica città di Scicli, in gran parte sul colle di San Matteo.

Era una passeggiata piacevole, che dopo la prima importante pendenza di Via Matrice, sulle soglie del Palazzo Beneventano, diveniva via via più lieve, man mano che salendo ci si addentrava nel tortuoso sentiero che conduce alla chiesetta di Santa Lucia. Questa levità percepita era forse solo quella che possiamo definire finzione del sé , del me!, nel caso specifico, in ragione della dovuta cautela da prestare ad ogni passo nello sdrucciolevole percorso rupestre, sui gradini scavati nella roccia, tra la verzura rigogliosa e i profumi di asparago, di cappero e di altre erbe spontanee, aromatiche e talvolta saporite, aggrappandosi una volta ad un ramo di carrubo, una volta ad un olivastro, prestando attenzione a non accecarsi con qualche rada e appuntita appendice di mandorlo ancora spoglio nel primo inverno, o altro genere d’arbusto. E quindi la stanchezza e il fiatone subivano tale disattenzione causata dalla distrazione offerta dal paesaggio naturalistico, ma anche dallo sguardo vago lanciato all’urbanità abbandonata da poco e sempre ben visibile sotto lo scosceso dirupo. La possibilità di allontanarsi da Scicli in cinque minuti, dal suo centro, e ritrovarsi immersi in una parvenza di selvatichezza, è stata forse una delle più lodevoli qualità della mia condizione di cittadino sciclitano, per molti anni, sino all’inibizione odierna. Si saliva alla sommità del colle, su, dove ancora triangolareggia la base della torre di un completamente diruto castello dalle fondazioni bizantine, e ci si sedeva infine a contemplare il mare poco distante, cercando di cogliere le sensazioni, gli afflati, che dovettero sentire le vedette, nei lunghi momenti di calma, nell’attesa un po’ buzzatiana degli sbarchi pirateschi. Poi, ridiscendendo a valle, si intraprendeva il percorso più soleggiato, che sfoga infine sull’ampio sagrato della chiesa matrice dal patronimico comune al colle. Quanti, chissà quanti!?, poetucoli di paese saranno saliti come me, nel corso dei secoli, a questo sorta d’Elicona del Sudest, a cercare  l’ispirazione, o – come inconveniente – a scontrarsi involutamente con essa, quanti avranno cercato solo la tranquillità e la pace del selvaggio che supera la civiltà? Personalmente, ad ogni salita solitaria, silenziosa, ho subìto sempre il fascino dell’impronta rivelatoria inesplicabile, quella dell’iniziando, dell’ epòpto, trovandomi a intuire di stare quasi sempre per afferrare la sfuggevole materia primordiale di cui sono fatti i sogni. Verità mai appresa, alla fine! “Questo fiume oscuro sul cui fondo si è nascosta l’infanzia, per non ritornare mai più”, scrive Gustafsson parlando di sonno come residuo di qualcun altro che alberga dentro noi. Non sono mai riuscito a comprendere del tutto tale sensazione, che non è il banale senso di appartenenza ancestrale ad un territorio o ad una genia, la quale ultima è in realtà roba da conservatori e sentimentali campanilisti.

Il ricordo è ben altro, come lo è il passato, fratello del futuro; inconsistenti ed evanescenti forme retoriche che nella sostanza nulla hanno di diverso dal sogno, diverso dal “sonno” solo nella parziale coscienza di percezione. Questa comunicazione dell’io con il noi complessivo del tutto, io penso sia più subita che realmente intrapresa con coscienza, ed essa vive solo della contemplazione silente, come imprescindibile momento propiziatorio di ogni volontà.

Così la mia più grande paura è che il Colle possa divenire un parco giochi, come lo è diventato il centro urbano della Scicli inferiore. Così come lo è diventata Ragusa Inferiore (o Ibla che dir si voglia), alla stessa stregua di gran parte dei comuni a rilevanza culturale di questa Italia-giardino da vendere ad ogni costo in onore all’esigenza di profitto economico (bellissima parola prestata alle peggiori intenzioni di speculazione). Certo, in tempi di magra, il mio discorso appare più vaneggiante che altro, e l’urgenza di coprire consumi e bisogni caratterizza le primarie richieste della cittadinanza. Tuttavia mi chiedo se il costo di una simile svendita non risulterà troppo elevato nel lungo periodo, quando in realtà proprio poco basterebbe per conciliare le differenti pretese della comunità. Nella mia profonda ignoranza mi domando se non sia possibile pensare al Parco di San Matteo – in eterna progettazione irrealizzanda – come area in affidamento alle forze di polizia forestale, quale normalissima riserva naturale-archeologica. E ancora mi pongo un ultima questione, in questo labirinto intricato di bivi etici, ossia se questa risoluzione statalista non risulti già in partenza pregiudicata dalle possibili intenzioni di qualcuno (ma potrebbero essere molti) che già probabilmente sta pensando a come cavarne fuori qualche manciata di euro, predisponendo l’opinione pubblica all’accettazione supina di un’eventuale affidamento futuro a privati imprenditori-salvatori della patria, i quali finalmente mi riconsentirebbero il transito nel colle al costo modico di un ticket, e nella piena sicurezza della scatola preconfezionata.

 

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