GIOVANNI SPAMPINATO VOCE LIBERA E PAROLA CORAGGIOSA DI UN ALTRO SUD

  Il caso Spampinato giace ancora velato e derubricato nella nebbia della primaora, ma Giovanni  ritorna con forza oggi dai suoi amici fraterni e nella sua Ragusa a far sentire la voce delle sue ragioni e il senso del suo estremo sacrificio. La nostra coscienza, ora come allora, si è fatta più inquieta e ricerca con più decisione la luce di una verità più complessiva. Il nostro Giovanni non doveva morire! La sua lotta e la sua ricerca della verità erano fatte in nome collettivo, al nostro posto. È amaro constatare che da quel lontano 1972 sino ad oggi quell’assassinio ingiusto e crudele, criminale e terribile, è stato derubricato a fatto di ordinaria cronaca nera di provincia e inscritto in un contesto di accanimento giornalistico contro l’autore Cambria, figlio del Presidente del Tribunale di Ragusa di allora. Il suo significato è quindi ancora coperto sostanzialmente dalla “prima” velina della verità di un regime politico-giornalistico che si è rivelata comoda perché funzionale all’innocenza del sistema, rassicurante perché continua ad assolvere tutti per la parte svolta. Bisogna rifare come Società civile il nostro esame di coscienza. Noi cattolici per la nostra parte di responsabilità collettiva; il potere giornalistico e politico per le sue corresponsabilità, complicità e connivenza. La Chiesa ragusana si mise in discussione per bocca dei suoi preti e laici più avveduti e coraggiosi. Il Potere come sistema operativo “totale” non lo fece perché recitava la sua estraneità ai fatti e a quei metodi. Si professava neutrale e si dichiarava del tutto estraneo e completamente pulito. Eppure in quell’evento e nella sua rappresentazione c’era tutto ed era presente come logica che dipingeva tutto e lo consegnava colorato e spiegato quotidianamente all’opinione pubblica. Allora come ora il Potere non era un concetto astratto e metafisico, ma una realtà pervasiva presente in modo capillare, fuorviante e deviante con il mito di un giornalismo indipendente di periferia e con la tesi scontata e diffusa ad arte secondo cui la nostra provincia “babba” era ritenuta sana ed esente da fenomeni malavitosi mentre era già allora attraversata da diversi disegni criminosi. Continuiamo a chiederci se egli fu martire di oscure trame eversive o responsabile e vittima del suo eroico furore politico che lo portò ad un giornalismo militante esagerato. Il caso Spampinato va considerato nella sua complessità oltre la comoda spiegazione “manipolata” dell’inizio per renderlo più intelligibile e rispettarlo nella sua specificità. L’assassinio di Giovanni Spampinato è stato derubricato a fatto di cronaca nera, mentre è stato un delitto del Potere come sistema “totale” che controllava la stampa e manipolava la lettura quotidiana dei fatti sociali e politici di questo lembo del Paese. Allora come oggi esso attiene al rapporto tra verità e giustizia, stampa e potere. È tempo di rimuovere l’ipocrisia che continua a coprire il caso. Lo spirito etico di quel sacrificio estremo e le radici culturali, politiche e religiose di quella eroica testimonianza sono ancora da evidenziare a livello di coscienza pubblica, soprattutto alle nuove generazioni. Non è solo il nostro cuore ma anche la nostra ragione a gridare che “Giovanni Spampinato non doveva morire!”. Molti lo invitammo allora ad essere più prudente – ed io fra questi insistentemente – perché era chiaro che qualcuno voleva fargliela pagare. Io lo invitai a non andare all’appuntamento da solo con Cambria. 
La sua lezione non è da ricercare pertanto e soltanto nel giornalismo militante, ma nella sua radicale e generosa deontologia professionale. In realtà una verità di regime accompagnò il massiccio bombardamento mass mediatico di quel periodo confondendo i piani, i livelli e i significati. Molti si prestarono a questa opera di mistificazione della verità. Il giornalismo di inchiesta a cui appassionatamente si era esercitato questo giovane era ritenuto allora sul piano professionale il livello più alto dell’impegno civile. In questo senso il significato di quell’assassinio deve essere ricercato in un altro orizzonte di significato e di eticità, quello della lotta degli spiriti liberi in un sistema democratico attraverso la militanza giornalistica e il dibattito culturale. La domanda di allora è ancora oggi inquietante e inevasa. La morte di quell’innocente è una ferita ancora aperta nella nostra società, nella nostra cultura politica e nella nostra coscienza religiosa e attende una risposta di verità e di ricomposizione. Giovanni Spampinato non era un lupo solitario o un cane sciolto, era l’espressione di quel cenacolo di intellettuali ragusani che ruotavano attorno alla rivista “Dialogo”, fondata da Luciano Nicastro, Padre Vito Bentivegna, Giorgio Flaccavento, Renzo Lo Presti e tanti altri come ponte di dialogo e di aggregazione giovanile di un ‘68 di provincia caratterizzato da un forte sentire morale e democratico e da un confronto appassionato tra cristianesimo e marxismo, concepiti spesso ingenuamente come la soluzione di tutti i problemi. Quel gruppo di animazione culturale di periferia aveva come riferimento maturo di vita e di pensiero coerente e militante due giovani professori (Luciano Nicastro e Giorgio Flaccavento) e come “apostoli” tutti quei giovani studenti e lavoratori che frequentavano la redazione del giornale e la Gioventù Cattolica del centro diocesano di Ragusa animato da Padre Salvatore Tumino. Quei giovani di “Dialogo” avevano una visione rivoluzionaria del cambiamento della società e del Potere, anche se ideologicamente motivata in modo diverso, ed erano tutti anticapitalisti, contestatori e sostenitori di una esigente e testarda democrazia sostanziale contro la prassi della degenerazione furba della democrazia formale. La verità per ciascuno di loro era una passione dell’anima e non una comoda opinione utilitaristica, non poteva essere manipolata perché era sacra e oggettiva e doveva costituire la virtù primaria delle persone e della società ragusana. La sfida di Giovanni Spampinato, come del gruppo di “Dialogo” di cui egli era espressione organica, genuina e sincera, era radicale ma non violenta, coraggiosa ma non neutrale e silente, coinvolgente e graffiante soprattutto contro le voci e gli emissari del Potere con i puntelli del suo Ordine organico provinciale. Quella sfida era decisa e permanente e non si esauriva in momenti e fatti episodici ma tendeva ad un nuovo rapporto dialettico tra Cultura e Politica, tra Cultura e Religione, tra Cultura e Scuola…tra la Politica e la Morale. In questo superiore valore civile essa è rimasta ancora attuale come la ragione profonda dell’impegno generoso e radicale di quei giovani e di quei professori. In questo senso la lezione di Giovanni Spampinato a ben vedere assurge a simbolo e a bandiera insanguinata di una seria missione culturale e civile. Da questo punto di vista la vicenda è stata spiritualmente “religiosa” nel senso più pieno e nobile del termine anche se ha avuto come protagonista un giovane laico non integrista, di formazione marxista. Sul piano del metodo giornalistico il suo rigore documentario e le sue acute indagini portavano a toccare alla fine anche le trame oltre l’ordito. 
Il nodo di ieri è ancora “gordiano” e va sciolto con uguale impegno intellettuale e forte coscienza civile. Ritorna la domanda di allora: Giovanni Spampinato è stato martire o vittima del suo eroico furore giornalistico, della solitudine terribile e tragica in cui l’aveva lasciato la cultura perbenista della nostra città “ordinata e complice” oppure vittima di una ideologia e di una militanza politica comunista nella quale troppo ingenuamente si era tuffato? Anche se la sua vicenda è ancora una ferita aperta, un vulnus, nella nostra identità collettiva, la risposta deve arrivare da una ricerca aggiornata e documentata della verità di quadro anche per garantire alla nostra provincia di periferia un vero autonomo e pulito sviluppo integrale. Su questo sentiero di ricerca si sono incamminati già diversi giornalisti fra cui Ruta e il fratello Alberto Spampinato. 
La sua lezione di tipo etico e politico chiama in causa, come dicemmo allora e come scrisse con chiarezza, a nome collettivo, l’amico Giorgio Flaccavento, le radici cristiane e culturali della nostra comunità, la sua etica sostanzialmente “borghese” e di supporto oggettivo al di là delle intenzioni personali al potere costituito. La domanda, come l’interrogativo di allora, è ancora inquietante e viva in noi e da essa bisogna “ripartire” per parlare alla nuova società ragusana nella sua mutata articolazione culturale, religiosa e politica e dialogare con le nuove generazioni perché attraverso l’approfondimento del vero e concreto rapporto quotidiano tra stampa e potere, tra potere della stampa e stampa del potere, tra verità e giustizia e tra giustizia e sua rappresentazione si possa scoperchiare la pentola degli intrighi e le progettazioni delle strutture“malavitose”.  
La sfida di Giovanni toccava il sistema nel suo cuore più nero, nelle piste inesplorate e tenebrose, nei sentieri della eversione, nella ragnatela della gola profonda che porta ai meandri piduisti del Potere in periferia. Giovanni non era un comunista fanatico né un cristiano clericale, non era solo un giornalista attento alla cronaca ma un fine ricercatore e un onesto intellettuale. Era un credente impegnato in una ricerca ed in questo senso era l’espressione più fresca e vivace di quell’eccezionale cenacolo di intellettuali ragusani “contestatori” e progressisti che avevano trovato nella rivista “Dialogo” della Gioventù Cattolica di Ragusa il luogo ideale di riferimento e una Scuola di impegno per quei giovani che volevano respirare nel profondo Sud il nuovo clima di libertà che veniva dalla contestazione globale e risentiva delle mutazioni epocali di quel periodo “caldo” della lotta civile e politica democratica. Essi ritenevano che era possibile e compatibile servire la verità della fede con la modernità della società attraverso la sinistra cristiana e la collaborazione

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