FRANCESCO DI ASSISI: LETTERA AI REGGITORI DEI POPOLI

Fuori dagli ambienti francescani in pochi conoscono la lettera di Francesco di Assisi ai “reggitori dei popoli”.

In un momento in cui la classe politica sta offrendo il peggio di sé nella gestione della cosa pubblica e  in cui molti  partiti  scelgono i loro candidati cooptandoli  tra personaggi che hanno, spesso, problemi in sospeso con la vita ( e per questo assolutamente manipolabili!); in una realtà  in cui è drammatica,  nei diversi settori, l’assenza  di “una classe dirigente serena e competente”; in un clima culturale  in cui fanno carriera  deputati, vescovi, primi ministri ammalati di narcisismo e  in cui la volgarità, la rozzezza, la superficialità vengono esibite come qualità,  rileggere la lettera di Francesco può offrirci  qualche spunto di riflessione.

Cosa ha da dire il  Patrono d’Italia ai sindaci, ai deputati, ai magistrati, ai ministri? Vediamo cosa scrisse ai potestà, ai consoli, ai magistrati, ai governanti del tempo, soffermandoci  su tre raccomandazioni presenti nella lettera: 1) ricordarsi che la morte è vicina; 2) non dimenticare il Signore; 3) dare onore al Signore.

 

La morte è vicina.

 

E’ singolare che la prima raccomandazione sia   ricordarsi “che la morte è vicina”.

Se mi immagino destinatario di una lettera in cui mi si ricorda  la prossimità della morte,  forse proverei  irritazione. Nell’invito a ricordare di Francesco c’è una profonda e sapienziale conoscenza del cuore dell’uomo. Una consapevolezza propria delle grandi personalità. Don Bosco raccomandava di vivere ogni giorno come se fosse il primo, l’unico, l’ultimo. Carl G. Jung scriveva: “l’uomo che non pensa alla morte ha bisogno di essere curato”.

Riconciliarsi con la morte cambia il cuore, aiuta ad essere umani, avvia il  percorso di  accettazione dei nostri limiti e di quelli altrui.

Ricordarsi che la vita è breve  aiuta a capire cosa vale la pena di essere vissuto, amato, goduto e cosa invece è rumore, vanità,  patologia .

Non negarsi che la morte  ha l’ultima parola  è la premessa per una visione  lucida del potere; è la precondizione  per  viverlo per quello che è e per non restarne travolti. Ricordarsi della morte ci aiuta a restituire tutto, perché è vero, come è stato scritto, che essa ci toglie solo quello che abbiamo trattenuto!

Il potere, sganciato dalla riflessione sul grande invalicabile  limite di “sorella morte”, diventa illusione, delirio, negazione della realtà. Diventa  il sedativo  per non contattare la paura della solitudine, del limite, della vulnerabilità, dell’impotenza.  

           Il  potere, infatti,  è forte e fragile. Può essere usato per la felicità e l’infelicità. Può costruire, distruggere e autodistruggere.

             C’è una sovrabbondanza di riflessioni filosofiche che correlano  significativamente la paura della morte e la passione per il  potere.  Elias Canetti ha scritto  pagine interessanti: … “più la morte è occultata, più diventa terrore, più cresce la libidine per il potere al punto di portare la persona a volerlo esercitare su tutti …il potente ha necessità di essere l’unico e questo lo porta a  diffidare nei confronti degli altri fino ad arrivare alla paranoia e a voler sopravvivere a tutti,  affinché nessuno sopravviva a lui.” … “il secondo aspetto del rapporto tra morte e potere è il bisogno di grandezza….”  (Elias Canetti, in  “Potere e sopravvivenza”).

Gli esempi dei dittatori di ieri e di oggi con  le loro  parate,  i loro discorsi enfatici carichi di seduzioni ( e di bugie!), il loro bisogno di ripetuti bagni di folla narrano di questo delirio di grandezza.

 

         

Copiosa, oltre a quella filosofica, è la letteratura psicologica sul rapporto tra ferite affettive e potere. Chi è stato calpestato, chi è stato privato in fase evolutiva del diritto a una sana autoaffermazione può trascinarsi  un  bisogno “insaziabile”  di rivincita. Un bisogno di vittorie  che mai appaga.

All’origine c’è una sconfitta, c’è una umiliazione, c’è un dolore insopportabile che cerca rivalse per essere tollerato, c’è una sofferenza che si esprime nel bisogno di aggredire e prevaricare.

Sono innumerevoli gli esempi di governanti ammalati  di potere che hanno distrutto  e stanno distruggendo popoli, luoghi e persino sé stessi. L’epilogo di  tante storie di potere è distruttivo e autodistruttivo.

Conosco quanto sia difficile, essendo stato per anni impegnato a livello politico, riconoscere in sé il potere come “possibilità di malattia” considerato che esso  viene invidiato e reputato  auspicabile per il benessere personale!

 

Non dimenticare il Signore.

 

Si comprende, allora, il senso dell’altra indicazione  presente nella lettera. Francesco denuncia che la cecità rispetto alla presenza del Signore diventa cecità sui  limiti della propria umanità. Quando  dimentichiamo che “siamo umani e non dei” imbocchiamo la strada dell’idolatria, ci inginocchiamo davanti  al potere, al  piacere, al  successo e facciamo di noi delle divinità. Dimenticare, nelle scritture sacre, è la radice di ogni peccato.  Scrive san Francesco nella ventesima ammonizione: “Beato chi non si ritiene migliore quando è onorato e esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile e disprezzato; poiché l’uomo quanto vale davanti a Dio tanto vale e non di più…E’ beato colui che non si pone in alto di sua volontà e sempre desidera mettersi sotto i piedi degli altri …”

L’ammonizione di Francesco suscita alcune domande: “Cosa mi fa sentire persona di valore?  Qual è il metro di misura per la mia  autostima? E’  una autostima condizionata o incondizionata?” E  ancora: “Cerco la gloria,   o l’obbedienza al bene degli altri? In altre parole  metto gli altri sotto i piedi o mi metto  ai piedi degli altri?  Perseguo ambizioni personali o ambizioni collettive?”

Francesco indica una strada: per custodire il proprio valore e per  obbedire al popolo, alla comunità è importante avere un’autostima incondizionata.

“Non dimenticare il Signore” è per Francesco l’invito a ricordare che siamo degni di valore, che siamo  amati   al di là dei meriti e dei demeriti, degli apprezzamenti e delle critiche: “quanto vali agli occhi di Dio tanto vali e non di più”. Misurare il proprio valore in base alla quantità degli applausi e dei consensi ricevuti, aumenta il rischio  della dipendenza e il rischio di affidare la direzione della vita e la responsabilità delle scelte agli altri   e non a Dio (e/o alla coscienza!) .

E’ un guaio quando un uomo di governo finalizza  le sue azioni  esclusivamente al consenso elettorale: rischia di perdere di vista il servizio al bene comune, alla giustizia e alla verità. In tal senso  ho ritenuto egocentriche le dichiarazioni di Barack Obama,  presidente degli USA:  “Questa crisi economica rischia di farmi  perdere le ormai prossime  elezioni presidenziali”.  In bocca ad un premio Nobel per la pace mi sarei aspettato di sentir dire: “so che la situazione è difficile, ma anche a rischio di perdere le elezioni, il mio dovere è fare le scelte che sono richieste dalla difficile situazione che sta vivendo il mio popolo e, con esso, gli Stati Uniti d’America.” 

 

Dare onore a Dio

 

I  nostri governanti dovrebbero essere onorevoli!

Per chi ha un ruolo di governo è importante porsi alcuni interrogativi  e non sottrarsi ad essi: “Cos’è onorevole? C’è onore nella mia azione? Chi riceve onore dalle mie decisioni?”

A Giorgio La Pira, amato sindaco di Firenze, al ritorno da un viaggio in Unione Sovietica  fu chiesto  quale fosse la differenza tra i cristiani nei Paesi comunisti e in Italia.  La risposta fu la seguente: “In Unione Sovietica  i cristiani vanno in chiesa e rischiano la loro vita, in Italia  molti cristiani  vanno in Chiesa per fare carriera politica”.

La riflessione di La Pira ci aiuta innanzitutto a evidenziare un rischio sempre attuale: Dio può essere strumentalizzato e non onorato .  

           Avverto sempre un grande  disagio nel sentire risuonare, per  usi  populistici, il nome di Dio nelle campagne elettorali. Oggi, molti indagati dalla magistratura cercano di sottrarsi alle aule dei tribunali e ostentano la fede in Dio per captare indulgenza presso l’opinione pubblica. E’  ripugnante parlare di Dio e non essere fedeli  a Dio, che è Verità, Giustizia e Carità!

C’è una strada sicura per dare onore a Dio. Una strada di grande concretezza: dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, vestire gli ignudi, visitare gli infermi e i carcerati, consolare gli afflitti,  dare ospitalità agli stranieri e… saper pagare dei prezzi per realizzare un programma politico di tale grandezza.

L’onore più credibile che possiamo rendere a Dio è quello che passa per la testimonianza di  un amore fedele e obbediente fino al sacrificio.

Ci sono tante testimonianze di un amore così. Ho provato  una commozione profonda  a rileggere  le ultime lettere di partigiani condannati a morte . Una grande  testimonianza di   amore per l’Italia , per la libertà e per la giustizia scritta con il sangue.  Vite offerte per una speranza da lasciare agli altri, ai figli, alle nuove generazioni.  Non esiste amore e onore più grande.

 

Conclusione

 

Francesco con la sua lettera ai governanti ci  riporta  alla realtà: il potere non è una divinità a cui vale la pena sacrificare le nostre vite. La morte, la storia con le sue  tragedie, le follie distruttive e autodistruttive di tanti (troppi!) governanti, il dolore delle vittime narrano, in modi diversi, dei limiti del potere che si sostituisce a Dio.

Francesco ci ricorda che il potere va restituito. Restituire è un verbo che gli è molto caro.   

          Credenti e non credenti su questo fondamento possono incontrarsi: il potere  è un prestito che non è nella nostra disponibilità, un prestito che ci viene affidato. Un prestito per piantare semi di futuro e di speranza.  Se ce ne impossessiamo,  se non lo verifichiamo in ginocchio, se lo utilizziamo contro gli altri,  la vita  e Dio ci chiederanno il conto. 

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