FIRMATO L’ACCORDO SULLA PRODUTTIVITÀ … MA NON DA TUTTI.

Ennesimo accordo tra le parti sociali con il patrocinio del Governo e l’arroccamento della CGIL.

Ancora una volta i lavoratori (o per meglio dire i loro rappresentanti) si dividono di fronte a una controparte unita e sotto lo sguardo paternalisticamente accondiscendente del Governo.

Questo non vuol dire che un accordo strategico come quello sull’aumento della produttività non si doveva chiudere, credo che sia molto importante per il nostro Paese dare un segnale di svolta anche in questo modo, ma le perplessità che hanno indotto la CGIL a soprassedere alla firma dell’accordo sono abbastanza condivisibili e non si capisce perché non abbiano indotto ad un ulteriore approfondimento invece di procedere a una firma non condivisa rinviando ad altri momenti la discussione sulle perplessità che il testo suscita.

Sorge spontanea una domanda: l’esigenza di immagine del Governo a firmare “subito” questo accordo obbedisce a una logica internazionale di aumento di credibilità del “sistema Italia” o a una logica interna di riproposizione della “proposta  Monti” alla luce del lancio di Italia Futura e come lascia intravedere qualche “frasetta birichina” lanciata li nel Golfo Persico da un Monti che certo non è ne uno sprovveduto ne un distratto e che si lascia scappare che “non garantisce per chi verrà dopo”?

Quando gli indizi si fanno tanti e concomitanti inducono a riflettere …

Ma evitiamo di impantanarci nella dietrologia e torniamo all’argomento che ci riguarda: il Governo mette sul piatto 2,1 miliardi di incentivi da utilizzare per l’incremento della produttività e per questo ha riunito intorno al tavolo tutte le parti sociali.

Ne è uscito un testo che in estrema sintesi contiene:

a)     una serie di richieste al governo come la tassazione agevolata per i redditi fino a 40.000 Euro  della parte del reddito legata alla produttività, o la riduzione del cuneo fiscale,

b)    demanda alla contrattazione di secondo livello una serie di materie in modo da rendere sempre più intrinseco il legame tra una parte della retribuzione e la produttività,

c)     demanda invece alla contrattazione collettiva una serie di materie finora regolate dalla legge,

d)    rinvia ad altro tavolo le regole sulla rappresentanza già oggetto dell’accordo del 28 giugno 2011.

Risulta abbastanza ovvio che la CGIL abbia insistito per ricomprendere in questo accordo anche le regole sulla rappresentanza: costituiva una forma di rivincita verso l’accordo chiuso in ambito FIAT che la esclude dalla rappresentanza dei lavoratori per il fatto di non avere sottoscritto l’accordo, e comunque riguardo alle perplessità che desta l’urgenza di firmare l’accordo con rinvii ad altra sede di alcune materie abbiamo già parlato, sulle altre problematiche invece è il caso di spendere qualche parolina.

La formulazione relativa alla divisione di competenze tra contrattazione nazionale e contrattazione integrativa relativa al recupero del potere d’acquisto è in effetti poco chiara, la CGIL aveva proposto di esplicitare in modo più chiaro che il recupero  dell’inflazione (che calcolato con l’indicatore ISTAT sappiamo essere già abbondantemente  deficitario) venga lasciato alla contrattazione collettiva in modo che a tutti i lavoratori venga salvaguardato un livello anche se imperfetto di recupero dell’inflazione delegando alla contrattazione integrativa gli elementi aggiuntivi legati alla produttività.

Ma la problematica un po’ più spinosa riguarda la formulazione assolutamente opaca del punto 7 dell’accordo in cui con una formulazione troppo generica si richiede il declassamento a oggetto di contrattazione  “con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro.” 

Segue l’elenco che principalmente riguarda 3 punti: la modulazione degli orari, il rapporto con gli strumenti informatici che permettono il controllo dei lavoratori, “tematiche relative all’equivalenza delle mansioni, alla integrazione delle competenze”. Praticamente si chiede ai lavoratori di rinunciare in nome della produttività a diritti riconosciuti dalla legge, affidando i propri diritti alla contrattazione dei propri rappresentanti (i sindacati maggiormente rappresentativi!).

Primo problema: una norma del genere può essere inserita in un accordo senza la firma del sindacato maggiormente rappresentativo? E senza avere prima definito in dettaglio i contorni della rappresentatività sindacale?

Francamente la contraddizione in termini mi sembra così evidente che non sprecherei altre parole.

Secondo problema: soprattutto con riferimento al problema dell’ equivalenza delle mansioni la CGIL solleva il dubbio, tutt’altro che peregrino, che questa formula possa adombrare la possibilità di demansionamento con relativo abbassamento del salario dei lavoratori che, obbligati a lavorare fino a 68 anni (!) dalla riforma Fornero, non reggano gli standard lavorativi. Il problema non è da poco e richiede a mio avviso una serie di garanzie cui il Governo non può e non deve sottrarsi.

Per risanare il bilancio delle stato si è richiesto ai lavoratori dipendenti italiani di andare in pensione in tarda età (oramai siamo quelli con l’età pensionistica più tardiva d’Europa), si può richiedergli pure di rinunciare ai diritti che gli riconosce la legge?

C’è qualcuno che alla luce delle ultime performance sindacali (vedi FIAT o Patto per l’Italia) e considerata l’ormai cronica divisione dei rappresentanti dei lavoratori si sente di scommettere sulla capacità di resistenza dei nostri sindacati alla controparte?

Rassicura in questo senso vedere uno dei più grandi sindacati italiani schierarsi in favore del costituendo partito promosso da un ex presidente di Confindustria?

                                                                                          

 

 

 

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