È giusto che i bambini facciano educazione sessuo-affettiva a scuola?

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Sì, se le cambiamo nome. Tanto per cominciare. Così. Mi va. Bene, ora. La sindaca di Genova Silvia Salis, sulla scia delle sue promesse (che forse qualcuno ha inteso come “minacce”), ha annunciato pubblicamente che da gennaio 2026, in quattro scuole dell’Infanzia di Genova, si terrà un’ora di educazione sessuale e affettiva alla settimana.

Il progetto sperimentale è stato presentato dal Comune non a caso in una data, ieri l’altro, simbolica ed evocativa: la Giornata Contro la Violenza sulle Donne. Saranno interessati e coinvolti trecento bambine e bambini, la cui età va da tre a sei anni. Ma i destinatari degli incontri saranno anche i bambini di trenta, quaranta e cinquant’anni. Saggio è sostenere e guidare anche le famiglie e farle danzare in una complicità e alleanza consapevole. Il bisogno lo si avverte.

La sindaca di Genova Salis ha detto la sua senza molte circonlocuzioni o lenocini esornativi di sorta. “Ci vuole molto coraggio a sostenere che non ci sia bisogno di un’educazione affettiva nelle scuole ma anche a sostenere che dev’essere qualcosa appannaggio esclusivamente delle famiglie. Lo Stato ha la responsabilità di educare e il sindaco che ha il polso della società deve dare un segnale. Questo progetto è un piccolo passo ma con l’aria che tira in questo Paese è un grande segnale. Come sindaco progressista ho una posizione molto chiara, c’è bisogno di un’educazione affettiva per i bambini più piccoli. Il tema della violenza di genere del linguaggio che si usa e di come le donne ancora fanno una fatica incredibile a emanciparsi in questo Paese è responsabilità di tutti ma ancor di più per i sindaci. È un progetto rivolto a trecento bambini, ma l’obiettivo è coinvolgerne migliaia. Dai nostri territori può partire un movimento culturale …”

Bene così. Per quello che vale, apprezzo le sue parole. E, ideologie a parte, sono favorevole. Sono terapeuta e psicologo e lavoro anche a scuola da decenni. Nondimeno, pongo alcune domande, così per. 

1. I genitori devono essere preparati, informati e consapevoli? E devono essere d’accordo? Direi: abbastanza. Comunque.

2. Come declinare una pedagogia di senso rivolta all’infanzia, se l’infanzia è la casa della fragilità e della più innocente curiosità? Est modus in rebus. Bisogna trovarlo, disegnarlo, cucirlo con delicatezza e sapienza scongiurando naturalmente brutalità diretta o retorica aerea. Ci vuole un funambolo, ma di quelli bravi. Bravissimi.

3. Non è forse vero che già da decenni, molte maestre, nella relazione pedagogica e didattica e umana con le alunne e gli alunni, ispirano già l’estetica dell’affettività? Del rispetto, della parità, del sentimento, della “corporeità in evoluzione”, del gioco delle emozioni, del contatto delle parole, della meraviglia delle sensazioni alla perenne ricerca di un nome? Direi di sì. Lo hanno fatto e lo fanno senza rutilanti declamazioni. E, ne sono certo, continueranno a danzare. Nonostante la tempesta. E su tutte le tempeste del mondo.

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