DISOCCUPAZIONE E LAVORO MINORILE

Premesso che il lavoro minorile nasce quindi sia da condizioni di degrado so­ciale e economico che culturale – che interessano le reti di protezioni e le dinami­che locali di sviluppo – possiamo individuare alcune caratteristiche specifiche del fenomeno italiano, connesse alle diverse dinamiche produttive che caratterizzano il nostro paese: in particolare il lavoro e lo sfruttamento minorile si concentrano nel Mezzogiorno e nel Nord, cui modelli produttivi sono assai distanti tra loro.

Nel primo caso il lavoro minorile nasce da condizioni di degrado sociale e eco­nomico connesse con uno sviluppo arretrato, con carenze infrastrutturali notevoli, con una presenza diffusa della criminalità organizzata, con tassi di disoccupazione e povertà alti che interessano circa un terzo della popolazione e delle famiglie.

Nel secondo caso si è invece in presenza di una disoccupazione prossima allo zero in molte province, con una domanda da parte delle imprese altissima, soprat­tutto per le figure meno qualificate (operai e addetti alla ristorazione). Domanda che si traduce in un’offerta salariale spesso anche alta (e il fascino che 800-900 euro mensili possono avere per un sedicenne non è poca cosa)

In ambedue i contesti, la scuola appare incapace, salvo poche e coraggiose esperienze sostenute dagli enti locali, di praticare una funzione compensatrice e di recupero, rimettendo in discussione radicalmente i propri modelli organizzativi, le pratiche di insegnamento-apprendimento, gli stessi contenuti della formazione.

E in un contesto in cui è venuta meno una sensibilità diffusa nell’opinione pub­blica nei confronti del problema, gli strumenti all’epoca individuati (legge quadro sull’assistenza, legge quadro per le politiche per l’infanzia, reddito minimo di inse­rimento), oggi comunque da integrare e migliorare, sono stati ben presto penaliz­zati, in una più generale opera di riduzione del welfare, anche nei trasferimenti di risorse e nella responsabilizzazione degli enti locali.

All’interno di questo quadro occorre poi evidenziare come alcuni interventi specifici in materia di politiche scolastiche (la legge 53/03) e in materia di immi­grazione (la c. d. legge Bossi-Fini) abbiano segnato un’inversione di tendenza nelle politiche portate avanti finora, che si basavano su un più generale innalzamento della qualità dell’offerta e della permanenza scolastica e su una cultura dell’inte­grazione e dell’inclusione. Tanto che nella comunicazione Unicef del 2004 (con cui ogni anno l’organismo ONU indica le criticità e da “i voti” ai vari paesi”) l’Italia risultava tra le nazioni indicate con “il cartellino giallo”: tradotto si stava (e si sta) facendo poco e male (negli ultimi 7 anni abbiamo sempre avuto “buoni voti”).

Basti pensare – in riferimento alla legge Bossi-Fini – come essa, infatti, renda più difficile qualsiasi ricongiungimento familiare e come condanni gran parte dei minori non accompagnati e clandestini a rimanere tali anche dopo il raggiungi­mento della maggiore età (questo perché la nuova normativa consente il rilascio del permesso di soggiorno soltanto per coloro che partecipino a un programma di educazione, assistenza, integrazione di almeno due anni).

Drammatico inoltre, lo scenario indotto dalle politiche scolastiche del centro-destra. È vero che esse sono a oggi soltanto lontane dall’essere tutte realizzate, ma l’effetto culturale e sociale di quelle scelte vive già nei processi sociali in corso. In particolare la dimensione selettiva del sistema appare duramente accentuata dalla scelta precoce che a 13 anni e mezzo i ragazzi sono chiamati a fare rispetto al canale liceale o di istruzione-formazione professionale. Ciò determina, già da ora, lo spostamento “in basso” delle dinamiche selettive. Toccherà insomma già ai maestri indicare quali sono i bambini “portati” per lo studio e quelli per il la­voro. Si afferma con forza la teoria del condizionamento sociale in base alla quale ciascuno è figlio del proprio destino, delle proprie culture familiari, del proprio contesto sociale. Per queste ragioni il “doppio canale” del ciclo secondario appare la coerente soluzione di un sistema pensato in funzione della riproduzione delle disuguaglianze.

Per combattere seriamente il lavoro minorile (o meglio i lavori minorili) oc­corre concentrare tutti gli sforzi delle istituzioni locali e nazionali su una “tastiera di strumenti” che punti, a partire dalla dimensione territoriale e anche tramite una collaborazione con i diversi soggetti impegnati sul tema (sindacati, imprese, associazioni di volontariato) a ridurre le condizioni di degrado sociale, economico e culturale che sono alla base dello sfruttamento dei minori, potenziando e non riducendo le reti di protezioni e qualificando i modelli di sviluppo locale.

 

di Cinzia La Greca

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