Come nasce la questione meridionale di Carlo Ruta

…Il generale Giuseppe Govone, i cui metodi, quando ebbe conferiti in Sicilia i pieni poteri, furono denunciati già allora come criminosi, non esitò a sostenere che i meridionali andavano considerati inferiori per natura. E lo scandalo che ne derivò, pure in Parlamento, non impedì al medesimo di passare di promozione in promozione, fino a ottenere, seppure per poco, sotto il governo Lanza, il prestigioso dicastero della Guerra. Si trattava, evidentemente, di un humus, cui aderivano del resto gran parte dei prefetti del tempo, a partire da quel Guido Fortuzzi, emiliano, che riteneva i siciliani non propriamente umani. Ma quali furono le cause di tale deriva, negli orizzonti di uno Stato che si ispirava al liberalismo?

 

Come in altre aree del sud, in Sicilia il nocciolo della questione continuava ad essere la terra. Le strutture del latifondo, che avevano retto alle leggi del 1812, con cui il parlamento dell’isola aveva abolito formalmente il feudalesimo, erano rimaste pressoché intatte, mentre le terre confiscate agli ordini religiosi finivano nelle mani del ceto agrario più spregiudicato. In sostanza, con il rifiuto di una riforma della proprietà rurale, che avrebbe potuto rimescolare le carte nelle politiche del Regno, equilibrando le opportunità e le risorse dei diversi territori, abortiva in quei decenni il disegno di una coesistenza equa di nord e sud. Sulla traccia di Cavour, contrario alle autonomie regionali, i governi sabaudi della Destra, da Ricasoli a Minghetti, convennero altresì su una linea centralistica, autoritaria, che, destinata a perpetuarsi pure dopo del 1876, quando il governo passò alla Sinistra, avrebbe annichilito ogni autentica aspirazione democratica. Lo scollamento nell’isola fu avvertito dalle popolazioni a tutti i livelli: anche dal ceto aristocratico-terriero, che pure da decenni aveva perduto il privilegio di un parlamento a propria misura. Ambienti in bilico fra luce e ombra, sullo sfondo dell’emergenza militare, poterono trarre tuttavia guadagno dalla situazione, coinvolgendosi nelle cospirazioni della corte sabauda, che crebbero ancora dal 1862, quando, con l’accoltellamento di tredici persone in diversi punti di Palermo, in simultanea, esordiva nell’isola una sorta di strategia della tensione.

 

La vicenda, oscura ancora oggi, rimane sintomatica. Identificato uno dei sicari, i sospetti, sin da subito, ricaddero sul principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del regno, e sul reggente dalla questura palermitana Giovanni Bolis, mentre venivano adombrati contatti ancora più in alto, tali da coinvolgere lo stesso governo sabaudo. Il sostituto procuratore del re Guido Giocosa in un rapporto annotava altresì il possibile movente: quello di sconvolgere l’ordine della città e del circondario per giustificare misure repressive. Si corse allora ai ripari. L’inchiesta venne prima ostacolata, poi fermata d’autorità. I conti con le fazioni garibaldine e repubblicane dell’isola venivano saldati comunque, nel medesimo orizzonte strategico, con l’assassinio del generale Giovanni Corrao, avvenuto, ancora a Palermo, il 3 agosto dell’anno successivo. E anche in questo caso le indagini, che minacciavano di lambire il governo e la corte sabauda, vennero chiuse anzitempo.

 

Su quegli sfondi, che nelle grandi città siciliane ricalcavano, per certi versi, lo Stato di polizia borbonico, esponenti pubblici di varia estrazione ideale si ponevano altresì a disposizione di consorterie vecchie e nuove, le quali, profittando anch’esse del fossato civile che separava le popolazioni dall’autorità pubblica e dalle leggi, tanto più si ergevano nei circondari come potere parallelo. Già adombrato nel 1876 da Raimondo Franchetti, viene ritenuto emblematico il caso del barone Nicolò Turrisi-Colonna, indipendentista nel 1848, capo della guardia nazionale e deputato filo-garibaldino nel 1861, infine, negli anni successivi, senatore del Regno. Il nobiluomo siciliano pare che riuscisse a coniugare senza problemi la difesa teorica dei principi di legalità, con la difesa, sul terreno, di associazioni propriamente criminali, come quella, già allora famigerata, che faceva capo a Antonino Giammona. Lungo gli anni sessanta e settanta, negli orizzonti di una questione meridionale che insisteva tragicamente, magistrati, inquirenti parlamentari, sociologi e cronisti, non soltanto italiani, scoprivano la mafia.

….. fin qui Carlo Ruta di cui  condividiamo , ma solo in questo articolo le sue analisi storiche della vicenda Questione meridionale. Un solo appunto vogliamo fare: Quando Ruta sostiene che i fatti di Bronte e di altre zone della Sicilia aprirono la questione meridionale  non dice perché Garibaldi fu, indirettamente, autore di quelle stragi mandando i suoi generali a reprimere nel sangue le proteste della mancata riforma agrazia promessa con lo slogan “la terra ai contadini” ma mai concessa. Se Ruta avesse letto i nomi di tutti i “picciotti” che andarono a combattere a fianco di Garibaldi contro i Borboni avrebbe capito che i baroni che reclutavano i volontari costituivano la vera aristocrazia agraria dellìisola che arruolavano i picciotti prendendo i poveri disgraziati braccianti agricoli dei loro feudi che mandavano a combattere a fianco di Garibaldi. Altro che la terra ai contadini, le stragi dei contadini dovrebbe dirsi. Per il resto condivido, per quello che può valere il nostro modesto parere, peraltro condiviso da un certo Giorgio Candeloro (Storia d’Italia volume settimo) un grande professore di Storia moderna  anche all’ Università di Catania. A domani per il prosieguo della storia di Carlo Ruta

Franco Portelli

 

 

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