Chi conosce il dialetto siciliano è più intelligente?

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola.
Le parole sono le case delle idee. Psicologia cognitiva dell’ovvio, direte voi! Così è. La ricchezza e la precisione chirurgica del vocabolario è la base imprescindibile del pensiero ai livelli più alti. 
Bene. In Sicilia sono stati creati tutti i linguaggi possibili e immaginabili. Perché qui, nei millenni, la storia e la fantasia avevano intonato già l’impossibile. 

Gli arabo normanni fenici e sicani, ad esempio, il corsivo delle ragazze su Tik Tok di oggi lo avevano già in uso per riunire le greggi e coccolare le mandrie. Per il resto, nel tessere filosofia e i versi di poesie, sussurravano in greco antico. Quando a volte dicono di noi: “Non sa parlare bene in italiano perché è siciliano.”, io un po’ me la sento. Da anni infatti mi diletto a scrivere, mescolando italiano, dialetto e inglese un po’ a testa di dog. Peraltro, lo ammetto, noi siciliani, nel nostro ostinato bilinguismo, abbiamo tecnicamente un accento molto “incarcato”, una dizione da caverna profonda, una cadenza lenta e cantilenante come una tisana alla melanzana di bosco. Sgrammatichiamo che è un piacere. I verbi intransitivi per noi sono contro natura, un’aberrazione del Creato. E “usciamo e entriamo le bici dal garage” in scioltezza, come fossero astronavi senza sintassi sul Pianeta Rosso. Rosso matita. Rosso maestra. 
E “Lo scendi a mare il Bimby quest’anno?”
“No, te l’ho detto: l’ho già sceso a Natale!” 
E la pratica spericolata del congiuntivo, la spettacolare incontinenza della nostra espressività … Persino le nostre foto su Instagram gesticolano! 

Ma è sulla consecutio che rasentiamo il sublime shakespeariano.
Il siciliano non è semplicemente un dialetto. È una signora lingua. Di intraducibile potenza. Provate a rendere, ad esempio, questo in un altro modo, se riuscite: “Zio, come è andato il viaggio da Caltanissetta?”
“Miiincia! Na vittimu petri petri!”
Magnifico. Imperiale. C’è tutto. Non occorre dire altro. Ti sembra di essere lì, con il loro sgomento, lo sconcerto, la fatica di chi è sopravvissuto a un incredulo destino. Tra gli snodi micidiali della Mazzarino-Gela, ma nella drammaturgia di Steinbeck. Quando un vernacolo ti scatapulta in una serie Netflix di ventitré stagioni con una semplice espressione. Capace di raccontare tutto lo strazio di una vicenda. Raccontare un’Odissea. Celebrare le inenarrabili peripezie. Soffiate da un fato arabo. E da un coro greco. Storie di sminchialunati compresi a schivar perigli. 

Sì, l’Odissea. Nel florido Italiano, invece, come diremmo?
“Accipicchia, nel tragitto tentammo di divincolarci tra un sasso e un altro!”
Ma coricati al buio, suvvia!
O nel pallido e smunto English?
“My dick, we saw it stone by stone!”
“Really? I see … And where is the cat?”
“The cat is on the table.”
“Miii! My sincere congratulations.”

No. Scherzi a parte. Dovremmo proteggere il nostro dialetto, come Patrimonio dell’Unesco e dell’Umanità. Lo stiamo un po’ perdendo tra mille toscanismi e inglesismi barbari. Peccato. Il siciliano è una variante di varianti. Muta da un paese a un altro. Laddove a Palermo (e ovunque) dicono “minchia”, noi del sud-est tunisiaco decliniamo più dolcemente “mincia” (prima di entrare nella Comunità Europea). 

Il siciliano è una trama di trame. Una contaminazione di contaminazioni. Una tela di Penelope di migliaia di antiche tessitrici.
“Ulisse, amore mio, come andò il viaggio di ritorno alla nostra Itaca?”
“Lassimi stari, Penelopa, ca na vittimu petri petri!”

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