CARNE ROSSA: LA VERITÀ DIETRO L’ULTIMO (FALSO) ALLARME.

Poche settimane fa, come ben saprete, è scoppiata l’ennesima polemica sulla carne rossa. Non che si trattasse di grandi novità, ma la notizia è stata diffusa con una certa enfasi e con un allarmismo un tantino esagerato. Vediamo bene cosa è successo e, soprattutto, se è cambiato qualcosa rispetto alle precedenti indicazioni su questo tema, dibattuto ormai da tempo.

Nel mese di ottobre 2015, l‘International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione, un’agenzia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che valuta e classifica le prove di cancerogenicità delle sostanze, ha pubblicato un articolo su Lancet, definendo la carne rossa come “probabilmente cancerogena” (classe 2A della classificazione IARC), e la carne rossa lavorata (insaccati e salumi) come “sicuramente cancerogena” (classe 1 della classificazione IARC). In primis, vorrei fare presente che quando si legge che una sostanza “è stata inserita in una delle liste dello IARC”, non è il caso di agitarsi, perché queste categorie indicano solo il livello di associazione, non le dimensioni dell’effetto. Non dicono, cioè, quanto una sostanza classificata come “cancerogena” sia effettivamente potente. Il termine “cancerogeno”, quindi, non è da tradurre automaticamente in “causa il cancro”. Inoltre, l’effetto dipende sempre dalla dose! Una sostanza può essere cancerogena se assunta a una dose molto elevata (come spesso accade negli studi di laboratorio), ma non alle dosi con cui veniamo a contatto nella vita quotidiana.

Tornando alla carne e ai suoi potenziali effetti nocivi per la salute, il gruppo di lavoro dell’IARC, in fondo, non ha fatto altro che indagare nuovamente sull’associazione tra il consumo di carne rossa e/o carni lavorate e il rischio di sviluppare determinate forme di tumore. Si è trattato, dunque, di una nuova revisione degli studi già disponibili in letteratura (circa 800), che ha fatto trarre agli scienziati le seguenti conclusioni:

1) gli studi su salumi e insaccati hanno una qualità e un’ampiezza tale da fornire una forte associazione di causalità tra i salumi e alcune forme tumorali;

2) gli studi sulle carni rosse sono statisticamente meno forti, e quindi permettono solo di ipotizzare una possibile correlazione tra carne rossa e cancro;

3) gli studi sulle carni bianche (pollame, maiale e coniglio) non sono sufficientemente attendibili, e quindi non si può esprimere un parere scientifico al riguardo, anche se la conoscenza dei meccanismi molecolari che rendono la carne rossa potenzialmente cancerogena – in primis, la presenza del ferro EME – fa dedurre che le carni bianche siano probabilmente più sicure, poiché non contengono questo composto. [A questa affermazione possiamo subito replicare che la carne di tacchino – carne bianca – è invece tra le più ricche in ferro…]

4) per quanto riguarda i meccanismi, il modo in cui la carne rossa possa causare di cancro non è ancora noto, ma la ricerca attribuisce un ruolo primario ai composti che si formano durante il trattamento (soprattutto la cottura a temperature elevate, più altri metodi di lavorazione), che possono causare un forte stress ossidativo o perfino dei danni al DNA;

5) una meta-analisi di studi di coorte ha fatto emergere una relazione dose-risposta tra carne rossa e cancro al colon: le persone che consumano una maggiore quantità di carne rossa (più di 100 g al giorno) avrebbero un rischio più elevato del 17% rispetto ai consumatori occasionali. Stesso discorso per le carni lavorate: un consumo pari a 50 g/giorno è stato associato a un aumento del rischio pari al 18%. Questi dati, però, rappresentano un rischio relativo, e vanno interpretati come segue: poiché (statisticamente) il 6% di persone in una popolazione ha la probabilità di sviluppare il cancro al colon (60 persone su 1000), tra i mangiatori di “poca” carne questo numero è più probabile che sia del 5,5% (55 persone su 1000), mentre è destinato a salire al 6,5% (65 persone su 1000) per i consumatori di “molta” carne.

 

In ogni caso, molti hanno interpretato queste dichiarazioni come segue: i salumi sono più pericolosi della carne rossa fresca e, a questo punto, meglio non mangiare più carne, per mettersi al sicuro… Ragionamento a dir poco approssimativo e fuorviante. Molti giornali, inoltre, hanno pubblicato articoli dal titolo “La carne rossa lavorata è cancerogena come il fumo” e simili, ma anche in questo caso si tratta di un’interpretazione sbagliata e decisamente discutibile. Neanche a dirlo, il fumo è un agente cancerogeno molto più potente degli insaccati o di una bistecca, e di certo una porzione di arrosto o due fettine di salame consumate occasionalmente avranno una minore influenza sulla salute rispetto a seppur poche sigarette!

Volendo puntualizzare su alcuni aspetti, la confusione generata su salumi e insaccati ha forse raggiunto il limite. In primis, ci sarebbe da approfondire quali siano quelli da “temere” maggiormente, e anche da capire quali siano le forme tumorali più promosse dal loro consumo abituale (si è parlato molto di cancro al colon, ma i dati sono contrastanti). Inoltre, e questo vale anche per la carne rossa fresca, non si devono dimenticare altri aspetti a dir poco fondamentali: la frequenza di assunzione, la porzione, la modalità di cottura e, naturalmente, il contesto! La dieta quotidiana, infatti, gioca un ruolo molto più importante di una singola fetta di salame. Se non mangio salumi e insaccati ma mi riempio di merendine, zuccheri e altre schifezze, non significa che stia allontanando il rischio di tumore, anzi…

È doveroso, insomma, riconoscere la confusione che da qualche anno regna su questo argomento, alimentata dalla mancanza di unanimità nelle risposte date al consumatore da medici, nutrizionisti e esperti di ogni tipo. Sul sito dell’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) la risposta alla domanda “Le carni rosse fanno male alla salute?” è la seguente: “Dipende. Un consumo eccessivo di carni rosse, soprattutto di carni rosse lavorate (salumi, insaccati e carne in scatola), aumenta il rischio di sviluppare alcuni tumori. L’aumento del rischio è però proporzionale alla quantità e frequenza dei consumi, per cui gli esperti ritengono che un consumo modesto di carne rossa (una o due volte a settimana al massimo) sia accettabile anche per l’apporto di nutrienti preziosi (soprattutto vitamina B12 e ferro), mentre le carni rosse lavorate andrebbero consumate solo saltuariamente.

Prendo questa risposta “ufficiale” come riferimento, perché è forse la più veritiera e oggettiva tra quelle che si trovano o sentono in giro, anche se occorre integrarla con alcune osservazioni. Personalmente, sconsiglio il consumo di carne in scatola, perché si tratta di un prodotto ad altissimo contenuto di sale, e la cui qualità non può essere annoverata tra le migliori. Per quanto concerne salumi e insaccati, la prima distinzione va fatta tra prodotti a marchio DOP o IGP e quelli senza marchio: i primi, per ovvi motivi (anche legislativi), sono di qualità superiore rispetto ai secondi, poiché la materia prima utilizzata è di ottima qualità, e i prodotto finiti non contengono additivi o altre sostanze. In Italia, inoltre, per effetto di una norma che all’estero non esiste, non è consentito accelerare la stagionatura dei salumi, aggiungere colture starter in prodotti diversi dal salame o aggiungere coloranti, tutte azioni che permettono sì l’accelerazione della maturazione e l’aumento di resa del prodotto finale, ma richiedono al tempo stesso l’aumento del sale aggiunto e, soprattutto, di nitrito, alias i principali imputati quando si tratta di rischio cardiovascolare e oncologico. In altre parole, se compriamo prodotti italiani, possiamo farlo senza averne il terrore, a maggior ragione se ne consumiamo in modo occasionale (da 1 a 5 volte al mese, porzione da 50 a 100 g, in base a sesso, età e fabbisogni).

E le carni rosse fresche? Ogni taglio ha le proprie caratteristiche nutrizionali e, soprattutto in alcune fasi (accrescimento, sviluppo, terza età), il consumo di un’adeguata quantità di carne rossa potrebbe essere importante, se non necessario. Ciò non significa che vada bene mangiare bistecca, polpette o fettine tutti i giorni, ma nemmeno cessare di punto in bianco, e in modo drastico, l’assunzione di qualsiasi tipo di carne. Anche in questo caso, inoltre, bisogna prendere in considerazione altri fattori, come il tipo di taglio, la modalità di cottura, la frequenza di consumo e la grandezza della porzione. E non si può nemmeno generalizzare, perché un bambino ha un fabbisogno diverso da quello di una giovane donna, così come le esigenze nutrizionali di un uomo di 35 anni sono differenti da quelle di un anziano.

In fondo, se prendiamo in considerazione le linee guida sul consumo di carne nell’adulto, vedremo che sono decisamente poco restrittive: il limite stabilito, infatti, ammonta a 500 grammi a settimana, valore che si raggiunge con tre porzioni abbondanti. È chiaro, quindi, come l’allarmismo scatenatosi il mese scorso sia da prendere con le pinze, mentre adottare un approccio ragionevole nei confronti del consumo di carni rosse e derivati rimanga il comportamento più saggio.

 

di Wanda Rizza

 

 

Link:

International Agency for Research on Cancer. Volume 114: Consumption of red meat and processed meat. IARC Working Group. Lyon; 6–13 October, 2015. IARC Monogr Eval Carcinog Risks Hum (in press). DOI: 10.1016/S1470-2045(15)00444-1:

http://files.ctctcdn.com/d5b5b2f1201/018bf0fa-6da5-4c06-973c-69fce7473bd8.pdf

http://www.sinu.it/public/20141111_LARN_Porzioni.pdf

 

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