APOCALISSE

In verità l’apocalisse non parla, non si racconta, non si rappresenta per la semplice ragione che dentro ad essa non sembra possibile alcuna distanza simbolica. Ci si è dentro e basta.

Si racconta e si rappresenta il momento successivo, quello della rinascita lenta e dolorosa, appesantita dalla coscienza del mondo in macerie, da cui solo può venire il riscatto: il post-apocalittico, che diventa un genere trasversale.

L’uomo del giorno dopo, titolo italiano dell’originale The postman, è il film che ha segnato l’inizio della debacle divistica di Kevin Costner, uno dei duri e puri di Hollywood, capace di bruciare l’enorme rendita che gli venne dal pluripremiato Balla coi lupi , di appena 6 anni prima, col suo cinema assoluto, libero, coraggioso, forse piuttosto ingenuo ma  totalmente dedito ad un’idea di racconto smaliziato del suo paese. Vi si narra di un mondo devastato da una guerra e percorso da bande armate che hanno sostituito ogni ordine legale e che impongono con la violenza l’unica legge possibile: quella della sopraffazione. Costner dà vita al personaggio di un vagabondo, che si improvvisa attore shakespeariano e che si spaccia per un postino del “ricostituito governo federale”. La menzogna, prima utile alla sua sopravvivenza, diverrà presto l’abito che costringerà il suo animo a disvelarsi, in un crescendo epico di rinascita e di eroismo. Trama forse un po’ esile, ma messa in scena sontuosa.

Scenari aridi, brucianti, plumbei sono quelli che fanno da cornice alla vicenda narrata da Iain Banks nel suo Canto di Pietra, romanzo post-apocalittico ambientato in una Gran Bretagna devastata da guerre civili e attraversata da una corrente fiammeggiante di odio e di violenza. Grande esercizio di scrittura degli spazi che si apre, improvvisa, in squarci di intensa e sensuale emotività.

Il recupero struggente del grado minimo del canto, dopo il furore della stagione del free, è il tema poetico di Relativity Suite, del grande Don Cherry. L’album, che uscì nel ’72, è una commovente istantanea del mondo attraverso un viaggio sognante per gli idiomi musicali dei più disparati angoli del pianeta. Un malinconico sogno ad occhi aperti in cui, dopo la distruzione delle forme agita dalle urgenze della modernità, si ricompatta il canto dell’umanità, come un velo sottile che si ricostituisce, attraversato da lame melodiche improvvise di un lirismo a tratti insostenibile: in particolare, il brano cantato, quasi declamato,  dal sax di Carlos Ward è di una bellezza assoluta.

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