8 marzo: donne over 35 e lavoro

“Oggi non è più come un tempo: le donne lavorano e sono indipendenti”. Frasi come queste si sentono dire spesso e ovviamente c’è del vero. Ma, come in tutte le frasi fatte, non si tiene conto delle grandissime zone grigie che ci stanno in mezzo.

Certamente molte cose sono cambiate, non si può negarlo, ma le donne che non lavorano e che smettono di lavorare dopo la nascita del primo figlio, sono ancora tante, tantissime. E non sempre è una scelta.

Basta guardare i dati pubblicati sul Sole 24 ore (infodata): 4 donne su 10 fra i 35 e i 44 anni non lavorano, contro il 15% degli uomini. Viene spontaneo chiedersi perché. E perché, soprattutto, il limite sembra essere quello dei 35 anni. Il motivo è presto detto: nel settore privato, chi assume una donna che non abbia ancora compiuto 35 anni ha diritto ad importanti sgravi fiscali. Oltre, per le aziende, diventa un problema. Parafrasando in termini molto duri, si viene quasi considerati un’unità costosa e non produttiva, a differenza di una giovane sui vent’anni che si è appena affacciata al mondo del lavoro e che è disposta a tutto, anche ad orari impossibili e a stage non pagati pur di entrare a far parte del mondo del lavoro. Diventa quasi un’impresa titanica, per una donna over 35, trovare un impiego ex novo a un salario decente a orari umani. Naturalmente, le statistiche non tengono conto del sommerso e del nero di cui moltissime donne fanno parte. Moltissime donne over 35 si accontentano di lavoretti in nero e saltuari e quindi senza nessuna garanzia per il futuro.

Se allarghiamo la fascia alle 30-69enni, sono 7,5 milioni le donne che non lavorano (il 42%), con un picco del 58% di quelle residenti al Sud. Non lavora un terzo esatto delle donne residenti al nord (34% del totale) e il 37% di chi abita nelle regioni del centro.

Guardando questi dati in modo “sociologico” è chiaro che la definizione di donna lavoratrice va a scontrarsi con la dura realtà: una donna, se non supportata dalla famiglia d’origine o da un marito o un compagno, fa’ davvero fatica a vivere da sola e a mantenersi. Diventa un miraggio poter acquistare un appartamento o pensare di avere dei figli.

Ed è pur vero che molte donne, una volta avuto il primo figlio, abbandonano il posto di lavoro.  La verità è che si può “stare a casa” per scelta o per obbligo. Fin quando si tratta di una libera scelta, naturalmente, nulla da dire. Ma se diventa un obbligo, due parole vanno spese. Una donna che ha un figlio spesso è costretta a restare a casa e a rinunciare al posto di lavoro facendo affidamento soltanto allo stipendio del marito. Perché? Il costo proibitivo degli asili e delle baby sitter se non si ha il sostegno dei nonni e per molti, spulciando i blog di casalinghe sui social, il “senso di colpa” per aver dedicato più ore al lavoro invece che al bambino, evidentemente ancora molto radicato nella nostra cultura. Il cosiddetto “welfare” non aiuta certo le neo mamme, costrette a fare affidamento sui nonni pur di mantenere il posto di lavoro. Ci si chiede allora: quando una donna diventa veramente indipendente nella sua vita se è costretta a farsi aiutare praticamente sempre dai genitori o dal marito? La realtà è che certamente, oggi, le donne che lavorano nel settore pubblico devono ritenersi molto fortunate perché è l’unico a dare la possibilità alle donne di avere un buon lavoro, uno stipendio decente e la possibilità di avere una famiglia. Ma per tutte quelle che lavorano nel settore privato, ovvero la stragrande maggioranza, la vita resta molto dura ed è fatta di scelte e di rinunce.

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