VITA IN TRINCEA,’’ TERRA DI NESSUNO’’.

A cento anni di distanza dalla Grande Guerra, è giusto rievocarla per fare comprendere lo sviluppo e il significato per l’Europa di oggi.

La prima guerra mondiale scoppiò tra il 1914 e durò fino il 1918, essa fu un evento di grande e indiscussa drammaticità e importanza per la storia.

Una delle prime cause si può ricondurre all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno del 1914 a Sarajevo, egli fu ucciso da uno studente serbo, di conseguenza l’imperatore Francesco Giuseppe dichiarò guerra alla Serbia.

In questa guerra troviamo diversi fronti: L’Italia che dichiarò guerra all’Austria nel maggio del 1915, i tedeschi occuparono il Belgio e poi entrarono in Francia, francesi e inglesi presero i possedimenti in medio Oriente alla Turchia.

Bisogna considerare che le trincee sono state uno dei simboli della Grande Guerra e la linea sulla quale gli eserciti combattevano si chiamava fronte.

Il fronte era costituito da fosse e ricoveri sotterranei che i soldati utilizzavano per ripararsi dagli attacchi nemici.

Queste trincee erano lunghi corridoi scavati nel terreno, riparate da muretti, mucchi di terra e filo spinato.

All’interno delle trincee le truppe vivevano in condizioni molto difficili, di notte i soldati erano costretti a vigilare per respingere eventuali attacchi e per evitare di essere colpiti dai nemici, di giorno la lotta era contro i topi, pidocchi, freddo, fango e umidità.

Il giorno accennato da Cadorna, in cui gli austriaci cambiarono le loro milizie, essi patirono un bombardamento spaventoso, vissero sotto una pioggia di ferro e fuoco.

Cadorna racconta di quel giorno in cui era l’unico ufficiale di servizio che si trovasse nelle trincee, in mezzo ai soldati per dare l’esempio di rimanere al proprio posto, egli affermò che i soldati pensavano alla sua vita, a proteggerlo.

I sintomi dei traumi di esplosione erano drammatici, come la neurastenia più comune tra gli ufficiali, si andava incontro a veri e propri sintomi di guerra come paralisi spasmi, inuttismo, cecità.

Le nevrosi di guerra, al pari della nevrosi in tempo di pace, era la fuga, attraverso la malattia da una realtà percepita come intollerabile e distruttiva.

E’ chiaro che le trincee hanno avuto un impatto negativo sulle persone che hanno vissuto questa tragica esperienza.

Moltissimi soldati venivano colpiti dal fuoco delle mitragliatrici nemiche, altri rimanevano feriti o mutilati nella ‘’terra di nessuno’’ senza poter essere soccorsi.

In trincea il soldato conviveva in ogni momento con la paura, proprio per questo i soldati per sopportare questa vita bevevano grandi quantità di alcolici, infatti Cadorna parlando di quel giorno disse: ‘’ Negli intervalli dello scoppio di due proiettili, i soldati seguitavano a mangiare, bere e fumare’’.

Nel 1918 la prima guerra mondiale termina lasciando sul campo 37 milioni di morti. ‘’Anche la morte si presenta per la prima volta nella dimensione dei grandi numeri come risultato di operazioni in serie e prodotto di organizzazione industriale. I soldati parlano spesso delle masse dei morti come fosse merce accatastata e imballata uscita da una catena di montaggio’’.

Queste parole tratte da A.Gibelli , la Grande Guerra italiani, Rizzoli, Milano 1998,fanno comprendere la drammaticità e il dolore di questi eventi che in qualche modo lasciano sempre un segno di dolore.

Siamo lieti di aggiungere una “memoria” di lella Colombo

I testimoni della storia

I SEGNI DELLA GUERRA

“quella cartolina non portava niente di buono. È  la chiamata alle armi, ci disse il prete. Alla guerra. La  guerra? Ma tu non sai sparare.

Mi insegneranno, mormorò.

 

Non mi ricordo cosa stessi facendo quando arrivò quella cartolina; ero sola in casa e mi meravigliai perché non ci  scriveva mai nessuno. Ma lo capii subito che non portava niente di buono: il  postino aveva una strana fretta,  mi disse di mettere un segno su un quaderno e andò via, neanche  il tempo di chiedergli qualcosa.

 La  sera, quando Vincenzo  tornò dal lavoro,  andammo subito in Chiesa per farcela spiegare meglio.

 È  la chiamata alle armi, ci disse il prete. Alla guerra.

Ma quale guerra? C’è la guerra?

La guerra è una cosa  dove  si spara e tu non sai sparare.

Mi insegneranno, mormorò  Vincenzo, e  non ne volle parlare  più.

 

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Erano appena passate le quattro la mattina  che   partì.

 Faceva freddo a casa, un freddo che penetrava e bagnava le ossa. Il braciere ormai quasi spento. Eravamo stati  svegli tutta la notte,  una notte senza sonno e senza pace, una notte troppo breve.

Ci salutammo. Stai attenta  ai bambini.. Ebbi l’impressione  che piangesse, ma non riuscivo a guardarlo negli  occhi. Di colpo mi sembrò un bambino. Lo abbracciai e lo tenni stretto stretto, lo baciai sul viso e sulla bocca, ma poi mi vergognai un po’. Lo sentivo tremare, come se avesse la febbre.  Fa freddo. Appena torno finisco la cucina e aggiusto il tetto.

I bambini dormivano, Paola di un anno, Francesco di pochi mesi. Se ne andò senza svegliarli.

Andavo  al Municipio quasi tutti giorni a chiedere  sue notizie, mi dicevano che potevo scrivergli. Ma io non sapevo né leggere né scrivere. E neanche lui, sapeva solo fare la firma.

Non seppi più niente, né dove l’avevano mandato, né cosa faceva. Sapevo solo che la guerra era una cosa brutta, che si porta i mariti e i figli, lontano, sulle montagne, in mezzo ai lupi.

 

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Vincenzo non tornò più. Disperso, mi dissero un giorno e così diventai vedova di guerra. Misi il lutto.

Dalle nostre parti  una donna era sempre vestita di nero; si metteva il nero per tutti i parenti che morivano, per il padre, la madre, gli zii, i cognati; più vicina la parentela più lungo era il periodo del lutto. Un vestito nero, una veletta ed uno scialle ad espiazione dei peccati dei nostri morti.

 Solo per i bambini non ci si vestiva di nero. Erano anime innocenti, non ne avevano bisogno.

 Poi arrivò la spagnola; mi risparmiò ma si portò Francesco.

Alla bambina misi un fiocco nero. Eravamo  sole, ed io avevo poco più di  20 anni.

 

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Giombattista era un brav’uomo.  Era istruito, era andato a scuola fino alla quinta, poi aveva cominciato a fare il bracciante a giornata.

Anche lui era andato in guerra. Per  Trento e Trieste, gli avevano detto. E per la terra, aggiungeva lui,  perché a quelli che tornavano  gli davano la terra.

Tornò e gli assegnarono  un po’ di zolle e di pietre sulla curva dopo  il cimitero; non era terra facile,  ma c’era una  casa e a piantarci qualcosa ci si poteva campare.

Accettai di sposarmi nuovamente e quel  giorno tolsi il lutto.

Lui mi portò in dote una zappa, una terra guadagnata con le ferite di guerra e una medaglia, la medaglia di Cavaliere di Vittorio Veneto. Anche a  Vincenzo avrebbero dato una medaglia se fosse stato fortunato.

 

Mi promise di volere bene alla bambina, di mantenerla. Le  voglio bene proprio perché orfana di guerra, mi disse, come se avesse avuto un debito da pagare per essere vivo, una specie di  vergogna che gli rimase  dentro per sempre ad  intossicargli  l’anima. 

Giombattista era stato ferito sulla Bainsizza, una ferita grave che forse lo aveva salvato. La vita riprese, ma il tempo non fu misericordioso con lui.

 La notte  sembrava non trovare pace, si alzava che era ancora buio, prendeva un po’ di tabacco, si faceva una sigaretta, poi un’altra ancora, andava  in cucina o fuori nell’orto se faceva  caldo, perso  dietro ai suoi incubi, ai  suoi fantasmi senza potere   prendere sonno.

 A volte mi svegliavo. Lo chiamavo. È notte, hai sognato, ma sembrava non sentirmi.

 Allora mi alzavo, accendevo il fuoco, gli scaldavo un po’ di latte. E aspettavo; e  sempre i ricordi arrivavano, puntuali, ora distaccati, ora affannati, ma a volte  si interrompevano  di colpo come se  qualcosa lo prendesse e lo trascinasse dove non potevo più seguirlo.

 La voce gli cambiava, diventava aspra  quasi  gli raschiasse la gola nell’uscire, ma era l’inferno che aveva dentro a trasformargli la voce, il volto, lo sguardo.

Io non mi stancavo mai,  anzi volevo che mi raccontasse, mi sembrava così di sentire anche Vincenzo, di stargli vicino. Glielo dicevo, ma non ci restava male.

Anche lui era partito che era appena giorno.

Un viaggio lunghissimo sulle tradotte militari con i  sedili di legno. Catania,Messina, Napoli, Roma.

Ad ogni stazione salivano dei ragazzi, e sempre la stessa inutile domanda“anche voi  alla guerra.”?

Chissà com’era la guerra!

Passammo per tutta l’Italia.  Poi la campagna diventò bianca bianca . Per la prima volta   vidi la neve. Il ghiaccio e la neve, e il sole sembrava un altro tanto  era freddo.

In caserma  ci diedero la divisa, gli scarponi, i guanti, una mantella, l’elmetto e via, verso l’altopiano.

In lontananza si sentivano  come dei tuoni anche se il cielo era chiaro. Non erano tuoni.

La prima volta che sentii il cannone mi bagnai, da averne tanta vergogna. Poi mi abituai a tutto: la  trincea, il fango, la fame, i lamenti, i morti che ti guardano. Non li ricordo più i nomi dei  miei compagni di reggimento, ma di quelli morti si. Pietro, Aldisio, Leonardo, Alvise, Dante. E anche le facce.  Tutti del “norditalia”.  Ognuno parlava  il suo dialetto, ma ci capivamo lo stesso.

 Il suo  racconto cambiava sempre, storie nuove ma sempre storie di morti.

E si finiva sempre lì, a quando uccisero  il tenente.

Un gran miserabile, quel tenente, non sentiva ragione. All’attacco! alla baionetta, uscite  fuori o vi faccio fucilare, urlava anche quando il fuoco era fitto e non si vedeva niente. Un pazzo. Ma non  si  poteva  morire così.

Una sera ne fece fucilare tre, uno ogni dieci; tu si tu no, tu si tu no, tu si. Stavamo in silenzio, le lacrime scendevano e ghiacciavano, ma stranamente non sentivamo freddo.

Ci guardammo, nessuno disse niente, ma fu un unico pensiero. Quando si fece sera, alla fine di una giornata di morte,  il suo corpo giaceva  a faccia in giù sul bordo della trincea.

Ci  sembrò d’avere fatto giustizia, pieni com’eravamo di rabbia.

 Quella rabbia gli tolse il sonno e la pace .

 

La guerra finì e si portò i lutti e i morti ma   lasciò tanta  fame e tanta  miseria. 

Nel ’40 i nostri uomini, quelli ancora validi, furono di nuovo  richiamati. Stavolta la vidi da vicino  la guerra.

La  vidi venire dal cielo e, in una notte buia e senza luna, anche dal mare.

Di colpo lo stradale di Scoglitti si illuminò, come fosse giorno, sentii i soldati marciare verso il paese e noi, sfollati in campagna,  nascosti sotto il canneto a trattenere financo il respiro. 

Io sono sopravvissuta ai bombardamenti, alle malattie, alla povertà. Ma nel petto  mi è rimasta come una pietra pesante, che fa sempre male.

 

Il giorno dei morti  da noi si usa fare trovare i regali ai bambini; sono i regali dei morticini. Bambole per le femminucce, fucili, spade e  pistole per i maschietti  che  per tutto il giorno nelle strade giocano a fare la guerra:  gridano, si nascondono, sparano e muoiono. Non riesco a  sentirli e mi dico ma come si possono regalare per il giorno dei morti pistole e fucili ai bambini!

Il 2 novembre ed  il 24 maggio   porto sempre i fiori al Monumento ai Caduti in Piazza del Popolo e accarezzo il nome di Vincenzo che è scritto proprio lì,  a metà dell’elenco.

Ma sempre, tutte le domeniche,  porto i fiori alla Cappella dei soldati Ungheresi.

 

                                                                                                                                  Lella Colombo

 

 

 

 

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