UNO STRANO MA DELICATISSIMO LAVORO

Quando mi sono arruolato, e da qui comincio a raccontare la mia storiellina e giuro che non è una autobiografia, non sapevo proprio a cosa andavo incontro. Proprio così, non lo sapevo affatto. Per sommi capi, conoscevo quell’attività solo perché, passando sotto al muro di cinta del carcere della mia città, vedevo le sentinelle che sorvegliavano i dintorni ma, poi e poi mai, avrei immaginato le ansie, i problemi, i turni massacranti, le enormi tragedie, i colleghi e le amicizie profonde che ho nutrito e che coltivo ancora con tanti di loro e che mi hanno portato ad essere esattamente quello che sono oggi, un Assistente Capo della Polizia Penitenziaria orgogliosissimo del compito che mi è stato assegnato tanti anni fa e che svolgo con tenacia, caparbietà, sensibilità e, lasciate che lo dica, tantissimo senso del Dovere.

A volte mi domando se avrò mai lasciato un ricordo nelle menti delle centinaia e centinaia di detenuti che ho incontrato in quasi trent’anni di “galera”, così come li ricordo io tra nitidi episodi positivi e dolorose memorie che, mio malgrado, ho vissuto e trascorso insieme a loro e con i colleghi.

Il nostro è un lavoro strano. Non c’è molta fatica fisica ma molta psicologia da mettere in campo, senza essere psicologi e senza un addestramento profondo e mirato a lenire, seppur in minima misura, la pena inflitta a chi si ritiene defraudato della propria libertà chi per una ragione, chi per un altra.

Raramente ho incontrato persone che si sono addossate le proprie colpe ma, hanno raccontato la propria versione omettendo la parte cruciale e centrale del reato in se stesso. Mah, non sto a giudicare o censurare però, il senso civico che ho in me, lo lascio nell’armadio con gli abiti borghesi e quando indosso la divisa, mi calo in un’altra dimensione a cui appartengo ormai da tempo.

“Ma cosa ho fatto di male? Non ho mica ucciso nessuno? Non ho mica violentato nessuno?” poi, magari si scopre che ha commesso un reato ignobile e neanche degno di essere menzionato. Ma questo è irrilevante. Non ci interessa e non deve interessarci. Non può influenzare il nostro lavoro ed il nostro comportamento nei confronti di chiunque ci si para davanti. E’ come se avessimo delle sagome, in carne e ossa ma, sempre di sagome, che hanno “TUTTI” il diritto di essere ascoltati e trattati con le dovute maniere, senza strafare e senza uscire da quei canoni in cui si basa il nostro strano ma delicatissimo lavoro, a volte strafegandosene dei doveri che dovrebbero osservare e rispettare, non tanto chi c’è dentro ma, l’uniforme.

Con questo, che voglio dire? Beh, si parla tanto di reinserimento del condannato, di prigioni sovraffollate, di pene alternative… ma del nostro lavoro? Nessuno ne parla! Non dico che siamo dei martiri pronti al sacrificio ma, chiedo che la nostra figura sia, almeno un minimo, valorizzata e non bistrattata come avviene sovente, chiamandoci “secondini, guardie carcerarie, aguzzini o meglio ancora, carcerieri”.

Ma nonostante ciò, la nostra umiltà e la nostra orgogliosa tenacia, sa sempre come superare momenti peggiori di un semplice appellativo pronunciato da chi ignora il nostro lavoro e l’onorabilità del Corpo.

Invito chiunque a sostituirci per una sola giornata dentro le sezioni con decine di detenuti e tutto il loro contesto che non è certo quello di un asilo o di una classe di scuola elementare. Magari esistessero le visite guidate… ci sarebbe da tirarsi i capelli! Ma cosa importa, tutto questo è irrilevante, poco importante. Siamo pagati per farci mettere i piedi in faccia? Qualcuno è di quest’avviso. A costui, vorrei dire che non è affatto così e che se hai bisogno di me, sappi che ci sarò sempre e sarò pronto a buttarmi anche nel fuoco per te.

Ma tutto questo… è inutile e superfluo. Non cambierà mai nulla. Altri interessi hanno la priorità.

Lettera firmata

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