UNO SGUARDO SULL’ETNA

Lo straordinario territorio dell’Etna e i vini da nerello mascalese sono da qualche anno sotto i riflettori del panorama enologico italiano. Nell’Etna sono presenti anche altri vitigni oltre al nerello mascalese: il nerello cappuccio o mantellato, il carricante, la minella e anche una piccola presenza di catarrato. Il nero d’Avola qui, nelle pendici dell’Etna, non riesce a dare risultati particolarmente incoraggianti, ad eccezione della zona sud, ma in quote significativamente più basse. Il vero protagonista etneo rimane, però, il nerello mascalese, vitigno antico, che soltanto da pochi anni, precisamente negli anni Novanta, è stato, per così dire, riscoperto.

La presenza del nerello mascalese sull’Etna risale a quattro secoli fa, visto che intorno al 1700 i produttori siciliani dell’Etna il nerello mascalese lo conoscevano benissimo. Lo chiamavano nireddu mascalisi; Mascalise, perché proveniente dalla piana di Mascali. Nel 1800 l’Etna produceva 100 milioni di litri di vino destinati in gran parte all’esportazione, soprattutto verso la Gran Bretagna. Improvvisamente questi vigneti di nerello mascalese furono abbandonati quasi del tutto, sia perché il nerello è un vitigno poco produttivo, sia perché l’unico modo di allevarlo sull’Etna è l’alberello, sistema che rende impossibile qualsiasi forma di meccanizzazione e richiede molta manodopera, ma che non assicura automaticamente la qualità del prodotto. Dopo un lungo abbandono, alla fine degli anni ‘90 sarà Mick Hucknall, cantante dei Simply Red, che, insieme all’enologo Salvo Foti, riporterà alla ribalta il nerello mascalese e la zona dell’Etna.

La zona di produzione è una fascia di terra, che partendo da nord passa a est e arriva a sud. L’ovest non è contemplato, destinato per lo più alla pastorizia e alla coltura del pistacchio, anche se esistono produttori di vino in questa zona. La zona più vocata resta la zona nord, tra Piedimonte e Randazzo, poiché verso la zona sud i vigneti ne escono arsi dalla calura e il nerello non ama il troppo caldo.. Proprio per questo, nella zona sud, i vigneti sono impiantati ad altitudini maggiori in modo da evitare l’eccessivo calore. Sebbene le temperature medie siano più basse rispetto al resto dell’Isola, sono soprattutto le forti escursioni termiche tra il giorno e la notte a garantire la qualità organolettica delle uve.

La tessitura del terreno etneo è, ovviamente, molto omogenea, con sabbia e lava anzitutto. L’acqua piovana è subito dilavata, evitando così che si crei fanghiglia e tassi eccessivamente elevati di umidità.

Nonostante sull’Etna sia possibile imbattersi con vigneti di oltre 60 anni, basti pensare che il più antico sembrerebbe avere 160 anni, questi oggigiorno sono una piccola percentuale.

Tramite una forte campagna pubblicitaria i nuovi vini dell’Etna a base di nerello mascalese sono stati subito paragonati al pinot nero. Questo paragone però ha anche del vero e non è solo frutto di una operazione di marketing. Molti fattori rendono il nerello mascalese simile al pinot nero: trasparenza cromatica, profumo fruttato, eleganza, ma soprattutto la grande interpretazione del territorio che dà questo vitigno. Ma molte altre differenze permangono, come per esempio il grande equilibrio del pinot borgognone, che gli permette un lungo o lunghissimo invecchiamento, mentre tale periodo èmolto più breve nel mascalese dell’Etna e comunque riguarda soltanto poche etichette. Ciò nonostante vi stato chi ha sostenuto che il nerello fosse un clone del pinot nero, arrivato sull’Etna tramite un mercante francese. Questa teoria è però stata completamente smentita, poiché l’esame del DNA ha dato esito negativo.

L’origine del nerello mascalese è quindi ignota, ma probabilmente questo vitigno è stato portato in Sicilia dalla Grecia e con i secoli ha subito diverse mutazioni fino a divenire quello che è oggi: un grande vitigno, non sempre amato, che in qualche caso regala grandi emozioni, mentre in altri casi qualche delusione.

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