Una gravissima imprudenza la causa dell’incidente di Zanardi :”Stava filmando col telefonino”

Pare che ci sia stata una imprudenza gravissima da parte dello stesso Zanardi alla base dell’incidente che lo ha in pratica ridotto in fin di vita. Secondo infatti la versione di un ciclista di Sinalunga che correva accanto a lui e che è un testimone  tra i tanti che hanno assistito al violento impatto del campione paraolimpico con il furgone che sopraggiungeva in direzione opposta alla sua, Zanardi stava filmando il tutto con il suo telefonino. La versione ha trovato conferma in un video ufficiale di un freelance che stava riprendendo l’intero evento. Alex Zanardi si trova ancora ricoverato in rianimazione e le sue condizioni seppur gravi paiono essersi stabilizzate.La notizia di Alex Zanardi, coinvolto in questo grave incidente stradale, ha sconvolto l’Italia. Il campione della Formula1 si trovava in Val d’Orcia, in provincia di SIENA per una delle tappe della staffetta tricolore di “Obiettivo 3”. Era l’organizzatore ed il promotore dell’evento.

Ed oggi dalle pagone del Corriere della Sera, Carlo Verdelli, ci regala una immagine di Zanardi paragonata d Ufo Robot, l’eroe di tutti noi per il quale tifiamo e con quale ci identifichiamo.

“La verità è che Zanardi non è uno di noi. Zanardi è quello che ognuno di noi vorrebbe diventare nel più spericolato e temerario dei sogni. E adesso che per un’altra volta giace a corpo sfigurato sulla sottile linea d’ombra che separa vita e morte, ci aggrappiamo al suo lettino, implorando il destino di non portarcelo via, di lasciarci il nostro sogno impossibile: svegliarci domattina con un po’ di Zanardi nel sangue, nel cuore. Appena un po’, che Sandrino da Bologna, in arte Alex, è un essere inarrivabile, l’Ufo Robot di quando eravamo bambini, il primo cavaliere di qualsiasi tavola rotonda. A 53 anni e mezzo, uscito indenne anche dal Covid, si era messo in testa un’idea delle sue.

L’ idea era una staffetta ciclistica a scopo benefico, dal Lago Maggiore a Santa Maria di Leuca, per ricucire da nord a sud un’Italia disunita e disorientata dal virus. Il suo ultimo video, alla partenza della tappa fatale tra Siena e Montalcino, dove mostra un cuore tricolore di panno regalato dai tifosi, è un inno alla gioia e alla speranza: «Solo in Italia accadono certe cose. Grazie, ragazzi, vi voglio bene. E ora via, che la strada è lunga». E mentre spinge con braccia poderose la sua handbike, a metà percorso scambia due parole con Paolo Bianchini, un produttore di vino: «L’ho affiancato con l’auto un minuto prima del botto. Mi ha detto che era l’uomo più felice del mondo perché stava pedalando in un paradiso». Un minuto prima. Un minuto dopo, l’inferno. Il siluro a tre ruote che si ribalta, un camion con rimorchio che arriva nell’altra corsia, la moglie Daniela che si precipita sul corpo del suo Sandrino e fa da scudo per paura che lo schiaccino altre macchine, prima che arrivino i soccorsi.

Il resto di queste ore, operazione d’urgenza, coma farmacologico, condizioni gravissime, sembra la ripetizione di uno strazio già visto. Circuito del Lausitzring, tra Dresda e Berlino, 15 settembre 2001, quattro giorni dopo le Torri Gemelle, quattro mesi dopo la morte, sulla stessa pista, di Michele Alboreto. Zanardi è in testa, mancano tredici giri alla fine. All’improvviso la sua Reynard Honda si imbizzarrisce, si gira, si rigira, finisce orizzontale alla pista, disarmata e immobile, la disposizione perfetta per essere tagliata a metà da un altro bolide che le arriva dentro a 320 chilometri all’ora. Dirà Zanardi: «Devo aver realizzato qualcosa solo quando, a un certo punto, dall’abitacolo ho visto che non c’era più la parte davanti della macchina e nemmeno le mie gambe». Amputazione bilaterale. Resta con un litro di sangue, affronta sette arresti cardiaci e quindici interventi chirurgici.

Si salva, infila le protesi, ricomincia una seconda vita. Dopo aver corso indiavolato dai go-kart alla Formula 1, continua a darci dentro, stavolta pedalando come un forsennato con le mani. Con l’handbike si regala 4 ori olimpici e 12 mondiali, più un record mostruoso alla maratona di New York (un’ora, 13 minuti e 58 secondi). Una forza bruta. Anzi, una forza buona. Che scaturisce da dove? «Beh, ho pensato alla metà di me rimasta, non a quella che avevo perso».

Gli eroi son tutti giovani e belli. Lui non è più giovane da un pezzo, ma è bellissimo, con due clamorosi occhi blu e un sorriso mite che nessuna delle molte folgori che l’hanno bersagliato è riuscita a incenerire, indurire, mutare in ghigno. Resisti anche questa volta, campione. L’hai già fatto quando un incidente stradale si è portato via Cristina, tua sorella in fiore, a quindici anni, e quando tuo padre Dino, idraulico, da cui hai ereditato le mani grandi e la passione per la meccanica e i motori, dopo averti seguito in ogni circuito della Terra, ti ha lasciato poco prima che tu vincessi i due titoli mondiali nella formula Cart (una volta si chiamava Indy). L’hai fatta, l’impresa di resistere, dopo il piovoso sabato tedesco del Lausitzring, per l’amore di un’anima inseparabile come Daniela e per poter riportare tuo figlio Niccolò, allora di tre anni, sulle spalle. Fallo ancora per noi, che a persone come te o come Bebe Vio dovremmo guardare appena ci lamentiamo con dio per ogni niente”.

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