TLVP

Questa settimana lo spunto mi viene dalla cara Aida Blanchett, che su Facebook ha postato qualcosa riguardo ai TLVP, acronimo che sta per Tristi Lamentosi Vittimisti Pessimisti.

E allora parliamo di questa categoria di umani, che – come la stessa Aida sottolinea – è trasversale rispetto al genere e dunque abbonda sia fra gli uomini che le donne.

Verranno in mente svariate qualità, tutte attribuibili a questa tipologia interessante di individui, nessuna delle quali avrà probabilmente la forza esplicativa della seguente: a letto con la febbre e il termometro in bocca!

Pensate che sono impazzito? No, tranquilli: sto solo proponendo un’immagine che vale più di 100 definizioni verbali. Un’immagine che condensa, nella immediatezza rappresentativa del visivo, quella che quasi certamente è la peculiare nota psicopatologica che accomuna i TLVP.

Gli esegeti dell’animo umano sanno che la storia di ogni individuo va letta con lo spirito dell’archeologo, che deve interpretare vestigia antiche, dissepolte e illuminate dallo sguardo del qui e ora, come piene di un valore di senso, di un significato che si è sedimentato in esse e che una volta era vivo, pulsante, parlante. Il tempo – che in genere viene chissà perché detto “gran signore” – facilita l’opzione più praticata dagli esseri umani, vale a dire la rimozione, che non è altro che un tentativo di truccare il testo della propria vita, scombinarlo, scomporlo, togliendo magari tasselli importanti per la sua comprensione.

E dunque? Qual è il percorso interpretativo che manca nella storia dei TLVP? Perché questi amabili soggetti praticano senza sosta l’arte della  commiserazione, del pianto programmato, del mordi e fuggi, del lutto come dimensione quotidiana, attuale dell’esistenza? Cosa, nella loro storia, è riconducibile a quella immagine prima evocata?

Un apprendimento! Quello che i fisiologi alla Pavlov chiamerebbero condizionamento: il misero, triste, scarno rinforzo positivo ( qualcuno a quanto pare si prende cura di me….) che li ha incollati ad un comportamento (sto a letto, ho la febbre, sto male), costringendoli a ripetere all’infinito quella pantomima di dolore, che ovviamente è reale quanto lo è stato – a suo tempo – l’apprendimento speculare che il soggetto teme più della sua stessa morte (se non sto male nessuno si prende cura di me…..).

 Rimane (fra l’altro) da chiedersi come mai i TLVP amano tanto allontanarsi, repentinamente e persino con un ghigno di piacere, dalla scena allestita ed agita dentro la quale vanno a prendersi la loro razione momentanea di amore: il loro mordi e fuggi, ciao devo andare!

Mai dare il tempo all’altro di recuperare la sua libertà, la sua autonomia, il suo libero arbitrio: in una parola sola, la scelta! Interrompere la scena vuol dire lasciare le cose sospese, nell’intrigo e nella fascinazione che vengono solo dal non far vedere qualcosa che si può solo fare intravvedere.

Auguro a tutti di trovare il modo di difendersi dai TLVP. Ma auguro ai TLVP di non ammalarsi veramente!

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