TERMINOLOGIA DELLA “DIVERSABILITÀ”

 

Essendo “un’abile diversa” da parecchi anni, mi ritengo “dottoressa ad honorem” in materia di diversità. Col mio sorriso e la mia esperienza personale dispenso ogni giorno esempi di gratitudine verso la vita nonostante le molte difficoltà ed espongo il mio modo di pensare con spirito costruttivo e l’intento di trasmettere la cultura a tutte le persone.

L’idea di diversabilità trae origine dall’esigenza di non permettere al deficit di oscurare il valore della persona nella sua essenziale umanità, proprio perché sottolinea una positività e non una negatività.

La persona con deficit è un individuo, con una propria identità, particolarità e caratteristiche proprie, mentre i termini utilizzati hanno poco a che fare con la fiducia dell’essere han-dicappato o in-valido ma “DIVERSABILE” : termine utile, propositivo e positivo perché credo che possa aiutare la società odierna a considerare la persona con deficit in una prospettiva nuova, più attenta alla storia personale di acquisizione delle abilità, delle competenze, delle capacità e del superamento delle difficoltà diverse da un’altra persona.

Certamente l’espressione “DIVERSABILE” non è la parolina magica che automaticamente cambia le cose, può però forse cambiare il nostro modo di percepirle e questo è il punto di partenza per qualunque percorso di ulteriore cambiamento.

Di conseguenza, deve esserci ancora un passo avanti nell’evoluzione terminologica e creare un neologismo: quello che propongo è una reinterpretazione della parola “disabile” e una sua trasformazione in “DIVERSAMENTE ABILE”.

Tutte le persone con diversità desidereremmo avere una società ed un mondo, quello odierno più aperto e accogliente da non considerare più le persone con problemi un vuoto che non abbia qualsiasi valore ed interesse.
Vivere certe situazioni di diversità dà forza, spontaneità, capacità di vivere emozioni, tensioni e sentimenti.

Un tempo, anche non troppo lontano, i termini che si usavano erano “idiota”, “cretino”, “deficiente”, “imbecille”. Nel giro di breve tempo, però, quelle parole hanno perso la loro funzione originaria e sono state sostituite con definizioni in grado di esprimere la “mancanza oggettiva” della persona, per esempio “non vedente”, “spastico”, “mongoloide”, “invalido” and so it goes.

Con questi termini, si metteva in primo piano il suo deficit, e non c’è da stupirsi se anche queste parole siano diventate insulti veri e propri.

Si pensò alla necessità di un’ ulteriore terminologia capace di inglobare tutte quelle espressioni per arrivare a una sola parola, “handicappato”, quando nel 1981 si celebrò “l’anno Internazionale degli handicappati”.

Spesse volte nel linguaggio corrente sentiamo dire “Che handicappato che sei!”, terminologia dispregiativa, che con l’andar del tempo si è trasformata in un’offesa.

Certamente questa espressione inglese ormai ci fa orrore, perché anche se in Italia non c’è la pena di morte, con  questa espressione si condanna a morte esistenziale, il soggetto a cui è rivolta.

Sembrava essere positivo che il 2003, sia stato proclamato “Anno Europeo delle persone con disabilità”;

quello che però è problematico del termine “disabile” è la tonalità posta sulle “non abilità”, con la conseguenza di alimentare una cultura del dis-valore e passare a una logica del valore diverso.

Sicuramente la presenza di un deficit può ledere alcune abilità della persona, ma, in molti casi, attraverso l’intervento di un adeguato programma educativo e la disponibilità di ausili, una persona con deficit può essere abile in modo diverso raggiungendo in parte o totalmente gli stessi obiettivi di un’altra persona.

Occorre tener conto che le abilità messe in atto dai soggetti con problemi sono le stesse e identiche abilità espresse dalle persone cosiddette normali.

Non si è ancora capito che anche noi fondamentalmente siamo delle persone potenzialmente normali.

I nostri problemi tutti li possono vedere, mentre sono pochi coloro che vanno oltre e ci guardano dentro.

E’ questo tipo di intelletto che migliora la nostra esistenza, per raggiungere una piena integrazione nella società: non più un favorito, non più un soggetto da nascondere o da proteggere, ma una persona libera di scegliere la propria vita, indipendentemente da ogni costrizione imposta dalla volontà degli altri.

La diversità è il bello della vita! 

 

 

 

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