È stata inaugurata a Vittoria la nuova area di Osservazione Breve Intensiva (OBI) presso il Pronto Soccorso dell’ospedale “Guzzardi”. L’area è stata intitolata alla memoria di Giuseppe Morana, storico dirigente amministrativo dell’ospedale, alla presenza dei familiari e delle autorità locali. La cerimonia ha visto la partecipazione del Direttore Generale dell’ASP di Ragusa, Giuseppe Drago, della […]
SU SCICLI UN INTERVENTO DEL GIUDICE SALVATORE RIZZA
14 Set 2014 05:50
Superfluo aggiungere che l’auspicata “democrazia critica”, vale a dire quel sistema di governo “inquieto, circospetto, diffidente nei suoi stessi riguardi, sempre pronto a riconoscere i propri errori, a rimettersi in causa e a ricominciare da capo”, difficilmente vedrà la luce, per il semplice motivo che essa è solo un parto dell’utopia. La verità è che il popolo tumultuante e sovrano darà sempre ragione a chi grida di più. Sta di fatto che il “crucifige!” scatenato dalla proposta del prefetto, impose a furor di popolo lo scioglimento del consiglio comunale, parecchi dei cui componenti vennero ritenuti, pur in assenza di uno straccio di prova, sotterraneamente collegati con la criminalità organizzata e costrinse diverse brave persone moralmente integre, che ebbero la sventura di trovarsi a fare gli amministratori e i funzionari del Comune in quel momento di grande confusione (mentale), a subire perfino l’onta della carcerazione preventiva.
In realtà, come si ricava dalla puntuale motivazione che contraddistingue la sentenza resa, il 9 febbraio 1994, dal TAR di Catania (relatore Vitellio, presidente Attilio Trovato, magistrato integerrimo e dotato di grandissima professionalità) l’asserita grave situazione d’illegalità si reggeva solo sul sentito dire e su una serie infinita di illazioni calunniose platealmente smentite dai fatti. Quel che, tuttavia, si rivelò l’anomalia più eclatante, fu l’evidente totale ignoranza, da parte di chi avrebbe dovuto avere, in ragione dell’alta funzione svolta, le idee ben chiare sull’argomento, del fenomeno mafioso, trattato alla stregua di qualsiasi fenomeno criminale, senza considerare i particolari elementi storici e sociologici che ne hanno determinato la nascita, ne favoriscono la crescita e, in definitiva, ne caratterizzano il modo di essere e di operare. Sembra opportuno, pertanto, un brevissimo cenno sulla sostanziale differenza che corre tra il fenomeno mafioso e le altre organizzazioni criminali.
È noto, anzitutto, che, anche negli anni in cui in Sicilia imperversò il banditismo, l’estremità sud orientale dell’isola, vale a dire la zona occupata dalla provincia di Ragusa e, in parte, da quella di Siracusa, rimase immune da eclatanti fenomeni delinquenziali, tanto da meritarsi la fama di “provincia babba” : una locuzione, questa, che, considerata l’epoca in cui nacque, nel corso della quale veniva ancora riservato alla mafia un rispetto e una considerazione poi per fortuna venuti meno, dietro il suo apparente dileggio, lascia trasparire una sottesa ammirazione per quel risultare “babbo” (ovvero stupido) nel contesto di una società rurale arcaica e violenta. Non va, invero, dimenticato che gli abitanti del sud Italia e quelli siciliani in particolare, avevano profondamente assorbito le secolari usanze e il modo di vivere delle popolazioni site nelle zone periferiche del feudo.
È risaputo, del resto, che, considerata l’estrema difficoltà a raggiungere aree tanto lontane rispetto alla sede feudale, con conseguente pressoché totale assenza di uno Stato di diritto e di un potere che tale diritto facesse valere, la sopravvivenza del cittadino era affidata alla sua capacità di farsi ragione da sé medesimo, ovvero, come accadeva nella generalità dei casi, alla protezione di chi rappresentava, per una sorta di delega universalmente riconosciuta, il feudatario che, a sua volta, delegava il compito al bravaccio di turno. Nacquero, così, i “campieri” o “soprastanti”, che, a lungo andare, si sostituirono al feudatario nell’esercizio del potere sul territorio e nella gestione delle controversie che nascevano tra gli abitanti.Tale particolare mansione, che faceva del campiere, insieme il legislatore e il giudice del caso concreto, giustificò la qualifica dell’ ”uomo di rispetto”. Di rispetto, in quanto “delegato” a un’attività benemerita e giustizialista concepita a imitazione di quella svolta dallo Stato.
Non a caso, il territorio nel quale l’uomo di rispetto era autorizzato ad operare si chiamò, nel linguaggio mafioso, “mandamento”. Un termine, questo, che fa riferimento, in termini territoriali, ad un “mandato”, ovvero a una delega a imitazione di quella, per così dire istituzionale, che, nell’antichità, veniva data al tyrannos. Naturalmente, trattandosi di un’attività gestita da persone dall’indole non certo pacifica e dai modi sbrigativi, in assenza di una base normativa che ne legittimasse l’azione e la rendesse uguale per tutti, diede vita a una giustizia barbarica, gestita con criteri sbrigativi che facevano affidamento essenzialmente sull’efficacia deterrente di sanzioni che nessuno poteva mettere in discussione. Finì, così, che l’”uomo di rispetto” divenne, di fatto, un tirannello che si sostituì alla legge e, alla fine, allo stesso feudatario che l’aveva “delegato”. Da ciò, dunque, nasce la mafia, vista, all’origine, come pseudordinamento parallelo rispetto a quello statuale, fino a diventare, col passare degli anni, una sorta di rozza istituzione che, gestendo in proprio il monopolio della forza, si pone in contrapposizione allo Stato. Essa si radicò in tutto il meridione, ad eccezione di alcune zone come, per l’appunto, il territorio ibleo, in cui i sudditi, divenuti cittadini, conservarono intatto il senso della legalità, facendo si che non attecchisse la genesi feudale del processo involutivo mafioso. Le ragioni di tale fenomeno sono le più varie.
Di certo, nella provincia di Ragusa (nel val di Noto in genere) esso fu dovuto, oltre che all’indole pacifica della popolazione locale, principalmente alle particolari caratteristiche assunte dalla Contea di Modica, in cui non si verificò la conservazione del latifondo, ridotto praticamente a zero dall’utilizzo di taluni particolari contratti agrari (l’enfiteusi soprattutto…) che provocarono il frazionamento e la successiva redistribuzione della proprietà terriera, i cui assegnatari, divenuti, in seguito, proprietari, non furono soggetti allo strapotere degli uomini di rispetto. Ciò, di fatto, consentì il radicarsi di una mentalità legalitaria che favorì il ripristino dell’autorità statale e impedì che venisse, di fatto legittimata l’illegalità e la violenza di chi si sostituiva allo Stato per dettare le sue personali regole di convivenza.
Come si nota, per ipotizzare un dominio mafioso in un determinato territorio, non è sufficiente ipotizzare l’esistenza di pur consistenti organizzazioni criminali, ma è ulteriormente necessario che queste agiscano e vengano accettate dalla pubblica opinione come “utili” per regolare la vita in comune fino al punto di condizionare l’andamento della pubblica amministrazione. Ciò certamente non avviene a Scicli, i cui cittadini, nella stragrande maggioranza, hanno ben radicato il senso della legalità e, quel che conta, non può essere imputato agli amministratori di oggi così come non poteva essere imputato a quelli di ieri. Essi, tuttavia, sono costretti a combattere su due fronti: da una parte il dogmatismo di cui si diceva all’inizio, che, di solito, induce l’apparato statale, come è avvenuto nel 1992, a valorizzare il preconcetto per dimostrare di aver indovinato nel sospettare il “marcio” al palazzo comunale, dall’altra la minacciosa, ingombrante presenza di gente che usa l’intimidazione come strumento di persuasione e la violenza come risposta al diniego.
Una situazione, questa, obiettivamente non facile da affrontare per chiunque non sia Superman, visto che, se non altro, proprio lo Stato, dal quale il pubblico amministratore dovrebbe essere difeso e protetto, si guarda bene dall’agire con decisione, attivando, in via preventiva (non quando il danno è ormai fatto), i rimedi offerti dal codice penale. In altri termini, non si vuol qui dire che la situazione a Scicli, sia di tutto riposo. Ché anzi, è di ogni evidenza che la società è diventata sempre più violenta e anomica. Si vuol solo dire che, non esiste la mafia, anche se esistono delinquenti sempre più violenti e spregiudicati che, pur essendo, talvolta, persino più pericolosi dei mafiosi, non giustificano, tuttavia, la adozione delle misure previste dalla L. 55/90.
È certo, comunque, che tendono ad aumentare pericolosamente gli episodi delinquenziali , indici di comportamenti prevaricanti sempre più soggetti a espandersi. Ne sono un eclatante esempio la presenza, specie nelle ore notturne, di gruppi di ceffi (molti extracomunitari, purtroppo), che imperversano, assolutamente indisturbati, agli angoli delle strade, specie nelle zone tra via Potenza e piazza Italia, molto probabilmente dediti allo spaccio di stupefacenti; ne sono ulteriore indice gli incendi dolosi scoppiati di recente in vari locali pubblici del litorale (per alcuni locali, ripetuti nel tempo); per non parlare dell’inquietante episodio di un giornalista aggredito da chi vuole evidentemente ridurlo al silenzio. Sono, questi, episodi che indicano inequivocamente una escalation della criminalità, lasciata
libera di operare, che, in assenza di controlli preventivi, può anche condurre al radicarsi nel territorio di vere e proprie organizzazioni mafiose. Ma – e questo è il punto nodale – se ciò avverrà, la responsabilità sarà paradossalmente proprio di quello Stato che oggi pretende di addossare la colpa agli amministratori locali. Quello Stato che sembra ancora più lontano di quanto non lo fosse nel periodo feudale; quello Stato, in particolare, che sopprime e “accorpa” (o meglio, accoppa) i presidi di legalità esistenti nel territorio. Scompaiono, così, caserme dei carabinieri, carceri, uffici giudiziari e il cittadino rimane sempre più solo.
Ricordo ai miei dodici lettori che, in quel di Locri (con poco più di 12.000 abitanti sede di Corte d’Assise) pur quando la ‘ndrangheta si era da tempo silenziosamente radicata, pubblici amministratori e comuni cittadini trascorrevano un’esistenza pressoché normale, mentre lo Stato si teneva sempre più lontano lasciando che le cose andassero secondo un apparente tranquillo tran tran quotidiano. Poi, improvvisamente, la ‘ndrangheta si rese conto che aveva messo radici, mentre le difese dello Stato si erano ridotte al lumicino. Fu allora che cominciò la triste sequela dei sequestri di persona e delle stragi. Lo Stato tentò, allora, di dare una risposta adeguata, seppur tardiva, al fenomeno, aumentando l’organico dei magistrati del locale tribunale portato da 9 a 11, poi ulteriormente aumentato (oggi si compone di 28 unità), creando nuove compagnie dei carabinieri (negli anni “80 vennero portate a 3, ed oggi a Locri e nei centri vicini, le compagnie sono circa 13), rafforzate da un distaccamento del battaglione Puglia e creando diversi nuovi commissariati di p.s.
Ciò nonostante, la situazione non è migliorata perchè la gente ha perso la fiducia che nutriva negli organi dello Stato. Occorre, in definitiva, prendere atto che è l’anomìa ad innescare il perverso congegno del potere mafioso: quanto più lo Stato si allontana dal cittadino, tanto più la mafia si avvicina e allunga i suoi tentacoli. Non meravigliamoci, dunque, se, un giorno o l’altro, anche da queste parti, qualcuno – sia egli un semplice cittadino o un rappresentante del popolo – si rivolgerà al Totò Riina di turno per risolvere i suoi problemi. Quando ciò accadrà, la mafia avrà – questa volta – veramente vinto. Allora, si!, converrà sciogliere il consiglio comunale! Tant’è, comunque vada, non servirà più a niente.
Giudice Salvatore Rizza
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