Sono favorevole all’educazione affettiva dei… politici

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

La vera educazione affettiva si fa innanzitutto con l’esempio degli adulti. Per carità, non ho mai preteso che il dibattito politico fosse bacini, miele e cuoricini. Ma è innegabile che il confronto da anni sui social, in tv, nei giornali, in Parlamento, è improntato scientificamente sullo scontro, la polemica sovente gratuita e strumentale, la faziosità ideologica greve, l’aggressività ineducata, la prevaricazione e la squalifica, l’intolleranza per il dissenso e per il “no” dell’altro, il pregiudizio per la diversità, l’insofferenza per la libertà di opinione, l’incapacità cronica di concepire il dialogo, la pulsione della sopraffazione (nei confronti di uomini e non meno delle donne), l’insensibilità nella comunicazione e nella percezione di chi vive dinanzi a te, che prima di essere un politico è un essere vivente (ne sono certo).  

Le parole “ascolto”, “rispetto”, “tolleranza”, “comprensione”, “inclusione”, “empatia”, non sembrano appartenere all’alfabeto della relazione tra individui e gruppi (che talora assomigliano a “branchi”). Sono parole e attitudini scritte in alcune pagine del volume (sull’educazione affettiva) che sono state evidentemente stracciate. Oppure del manuale sull’educazione affettiva molti politici sembrano aver visto solo la copertina. E forse le figure. 

Eppure la vera educazione affettiva si genera innanzitutto con l’esempio degli adulti. E soprattutto di quegli adulti che hanno più visibilità ovunque e perennemente, per una grazia ricevuta dal destino. Che equivale a una responsabilità immensa. 

Con quale coraggio pretendiamo dai bambini e dai ragazzi di essere gentili e delicati, assertivi e sensibili, altruisti ed empatici, se noi adulti impegnati nel santuario delle responsabilità (l’agorà civile e politica) siamo sovente degli “haters” in maschera (Joker mask)? Non adoro l’ipocrisia di chi pretende di insegnare ai bambini a “volersi bene” e a relazionarsi nel rispetto reciproco esibendo nei fatti spesso e volentieri atteggiamenti in totale e stridente contraddizione con le parole declamate. E sono indelebili certi spettacoli offerti ovunque e riproposti viralmente anche a beneficio (si fa per dire) dei più giovani.

Peraltro, mi domando. Il richiamo all’educazione affettiva ha un senso risolutivo? O i corsi sull’empatia sono utili solo a chi è già empatico? Ma davvero pensate che, se quell’uomo ha devastato così la vita di una donna, è perché a scuola non aveva seguito l’ora di educazione sentimentale? In quarant’anni ho incontrato centinaia di uomini con la sola quinta elementare che non sfiorerebbero una donna neppure con un dito.

I docenti, nei loro piani didattici, da anni, prevedono percorsi formativi di alfabetizzazione emotiva. Già a Scuola dell’Infanzia un bambino di tre anni sperimenta il rispetto di sé e dell’ altro, la solidarietà e la condivisione e la negoziazione (dei giochi e degli spazi). La scuola prova già a dare un contributo facendo ciò che è di sua competenza. Dobbiamo sperare invece che a scuola operino anche professionisti (magari non influencer) che osservino, intuiscano, valutino indizi e segnali di disagio, investendo realmente sulla prevenzione e sul benessere dei cittadini in età evolutiva. 

A scanso di equivoci, io ora sono favorevolissimo ai progetti inerenti l’educazione affettiva. Li giudicherò solo dopo aver visto come vengono concepiti. Non ho affatto pregiudizi negativi. Al contrario. Ben vengano a prescindere. Ma il tema del mio articolo è casomai un altro: io non vedo una correlazione lineare e deterministica tra questo femminicidio (e altri) e la carenza di educazione affettiva. Le cause sono altrove.

Io credo, da anni, che sul femminicidio dovremmo inaugurare una riflessione più profonda, pragmatica e netta, una riflessione antipatica e brutta, meno popolare ed eufonica, intesa alla prevenzione e alla deterrenza psicosociali. L’individuo è responsabile della sua crudeltà. E deve passare chiaramente il messaggio che la crudeltà viene sempre scoperta e “punita” senza esitazione, rendendo orribile nei fatti (con pene severe) la vita di chi commette questi crimini. Questo è il primo principio dell’educazione psico-affettiva e pedagogica che (sociologismi e retorica dei buoni sentimenti a parte) deve essere insegnato a scuola e in famiglia per quei pochissimi che saranno potenzialmente in grado di violare i confini inviolabili dell’orrore. Solo l’esame di realtà, la consapevolezza concreta delle conseguenze di una fantasia omicida resa poi reale, la paura egoistica per l’impatto che il loro crimine avrà poi realmente nelle loro stesse vite. 

Per un individuo su migliaia solo la realtà e il timore possono contenere certe azioni. Tutti gli altri individui possono e devono essere sensibilizzati, anche se comunque non arriverebbero e non arriveranno a commettere atti del genere. Milioni di bambini e adolescenti conoscono già il limite invalicabile e credono già nel rispetto e nei sentimenti. Poi vedono i politici sui social…

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