È stata inaugurata a Vittoria la nuova area di Osservazione Breve Intensiva (OBI) presso il Pronto Soccorso dell’ospedale “Guzzardi”. L’area è stata intitolata alla memoria di Giuseppe Morana, storico dirigente amministrativo dell’ospedale, alla presenza dei familiari e delle autorità locali. La cerimonia ha visto la partecipazione del Direttore Generale dell’ASP di Ragusa, Giuseppe Drago, della […]
SHOAH DOMANDE A DIO SUL DOLORE DEGLI INNOCENTI
14 Feb 2014 14:56
“Una strada del quartiere ebraico di Varsavia, nel 1943. E’ notte. Dappertutto devastazioni, insegne di negozi divelte, vetrine frantumate, cumuli di immondizie, oggetti smarriti. La strada è chiusa, da un muro. Un uomo, dall’aspetto dimesso, vestito di un abito logoro, rovista tra le macerie in cerca di qualcosa. Tra cumuli d’immondizia e ossa umane rinviene, una bottiglia, la gira e rigira tra le mani. Contiene alcuni fogli. La apre; estrae i fogli; li scruta; riesce a leggervi, quasi sillabando: “Io, Yossl, figlio di David Rakover di Tarnopol, discepolo del Rabbi di Ger, discendente delle grandi, pie e giuste famiglie di Rakover e Meisls.”. Comincia così l’adattamento teatrale di Emanuele Giudice del racconto Yossl Rakover si rivolge a Dio di Zvi Kolitz: una lettera-testamento, definita, sulla prima forma di resistenza ebraica della storia, dopo quella del 135 d.C., al tempo di Adriano. Yossl vive nascosto in un palazzo semidistrutto del ghetto. Aspetta di morire, come i suoi compagni prima di lui, e come gli altri che vivono in quel luogo, ucciso da quel furore nazista che abrutisce la storia del Novecento. Scrive. Scrivere diventa un estremo atto di rivolta, un atto d’accusa all’uomo e un interrogatorio a Dio, in forma di colloquio duro, spietato.
Yossl Rakover fu definito racconto in sé meraviglioso, di speciali vicissitudini e umanità. E ancora: fulminante atto d’accusa e insieme testamento spirituale di un intero popolo. Il filosofo francese, Emmanuel Lévinas, lo proclamò una bellissima preghiera, un salmo moderno, che tantissimi, in tutto il mondo, per decenni, hanno letto, tradotto, analizzato e recitato. E ancora: grande tema della letteratura moderna, che suscita Yossl Rakover, quello della “sofferenza inutile“, del patire irredimibile di un innocente, che nessuna teodicea può salvare, che nessun Dio potrà mai consolare. Grande interrogativo che, da Dostoevskij, percorre tutto il Novecento, attraverso Kafka sino a Simone Weil.
La fonte
Kolitz scrive il testo in una sola notte, in una stanza d’albergo di Buenos Aires, dopo averne rinvenuto la fonte in un manoscritto anonimo, trovato per caso fra le rovine del ghetto, in quella bottiglia tra cumuli di pietre carbonizzate. Pubblica il racconto nel 1946 in una rivista yddish di Buenos Aires. Tempo dopo il testo viene ripreso e pubblicato all’estero. Ma qualcuno dimentica di segnare il nome del suo autore, sicché la storia di Yossl Rakover si diffonde senza Zvi Kolitz. Per molto tempo quel testo è ritenuto documento autentico e testimonianza diretta. In realtà Yossl Rakover… è pura creazione della fantasia di Kolitz! Fra gli artisti, tanti, che interpretano questo capolavoro: la regista e attrice Marina Bassani al Teatro Franco Parenti di Milano; Moni Ovadia, uno dei massimi interpreti della cultura e del teatro yiddish contemporanei.
Gli autori
ZVI KOLITZ (Alytus Lituania 11 dic. 1919 – New York 29 set. 2002) giornalista, uomo politico, di destra, cultore della Torah e della letteratura classica di tanti paesi, esperto del patrimonio biblico, autore di spettacoli e film, produttore di musical a Broadway. Nel 1937, diciottenne, la madre lo mette in salvo e lo porta in esilio con i sette fratelli. Compie gli studi universitari fra la Germania e l’Italia, a Firenze. Altre sue pubblicazioni: La tigre sotto la pelle, ed. Bollati Boringhieri.
EMANUELE GIUDICE è poeta siciliano, narratore, saggista e drammaturgo, di radici iblee. Delle 29 opere pubblicate, fra le più note: Il poeta e il diavolo, Un uomo chiamato Gesù, Monologo sulla pietà, Il dolore e la luce, Come noi… Esponente di rilievo del teatro sacro contemporaneo, d’ispirazione religiosa, laddove Diego Fabbri, Giovanni Testori, lo sono di quella laica. Coautore del Dramma Sacro di Vittoria, dichiarato nel 2007, con regia Gianni Battaglia, Patrimonio Unesco, come Eredità immateriale della Regione Siciliana. Tra i tanti premi letterari ricevuti, il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio.
Gli interpreti
IL GRUPPO KLEZMER restituisce il fascino di musiche tradizionali ebraiche su cui il genere klezmer si fonda. Un microcosmo musicale, come lo definisce il maestro Gianluca Campagnolo, dove confluisce la complessità del vissuto: festa, gioia, virtuosità, ma anche nostalgia, pathos, disperazione. A fianco dello stesso Campagnolo nel clarinetto, maestri musicisti di grande bravura: Francesco Scrofani Cancellieri, al pianoforte; Valerio Battaglia, alla chitarra; Gianluca Abbate, fisarmonica e percussioni.
IL TEATRO D’ARTE SICILIA con i giovani interpreti del Laboratorio Teatrale che tanto successo e tanti apprezzamenti in anni recenti ha ottenuto in ITALIA e presso l’INDA (l’Istituto Nazionale del Dramma Antico) di Siracusa: Martina Lauretta, Enrico Mallia, Enrico Novello, Federica Parisi…
con GIANNI BATTAGLIA, attore e regista in attività con importanti attori italiani, in 30 anni di eventi radicati nella memoria regionale (il suo Dramma Sacro è Patrimonio Unesco), interprete e protagonista di un Teatro d’Arte di Sicilia, patrimonio nazionale, storico, artistico, della mediterraneità.
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ZVI KOLITZ
nasce il 14 dicembre 1919 a Alytus, una cittadina della Lituania fra Grodno e Kaunas sulle rive del Njemen. Kolitz è un “litvak”, un ebreo lituano, figlio di un rabbino. Come i suoi padri coltiva la Torah e la letteratura classica di tutti i paesi. In Lituania si potevano leggere in yiddish Omero e Dante, Goethe e Dostoevskij e l’intera cultura moderna. Nel 1937, prima che il paese fosse distrutto da Hitler e da Stalin, la madre prende con sé Zvi e gli altri sette figli e va in esilio. Zvi Kolitz ha la possibilità di compiere gli studi universitari fra la Germania e Firenze. Nel 1940, quando ormai l’asse Hitler-Stalin gli aveva precluso ogni possibilità di ritorno in patria, si reca a Gerusalemme dove sarà impegnato in attività anti-inglesi fino a subire la prigione. Qua.lche tempo più tardi finisce per arruolarsi nell’esercito britannico per opporsi ai nazisti. Nel 1941 la Lituania – secondo fonti del Terzo Reich – fu del tutto “ripulita dagli ebrei”. Nel 1943 anche l’estrema resistenza del quartiere ebraico di Varsavia crolla. Nel 1946 Koltiz partecipa ai lavori del Congresso sionistico mondiale a Basilea e a Buenos Aires. Ha ventisei anni. In una camera d’albergo di Buenos Aires scrive, in una sola notte, “Yossl Rakover si rivolge a Dio“, che appare sulla “Jiddische Zeitung” il 25 settembre del 1946. In seguito si stabilisce a New York, dedicandosi all’attività di scrittore e giornalista. Autore di spettacoli e sceneggiatore è produttore di musical a Broadway. Fra le sue pubblicazioni La tigre sotto la pelle (ed.Bollati Boringhieri). Muore a New York il 29 settembre 2002.
su “YOSSL RAKOVER SI RIVOLGE A DIO”
(segue AMARE LA TORAH PIÙ DI DIO di Emmanuel Lévinas)
Nel settembre del 1946 una oscura rivista in lingua yiddish di Buenos Aires, «El diario israelita», pubblicava Yossl Rakover si rivolge a Dio presentandolo come l’ultimo messaggio scritto da un combattente del ghetto di Varsavia mentre il cerchio della morte si stringeva, minuto dopo minuto, intorno a lui – e ritrovato «tra cumuli di pietre carbonizzate e ossa umane, sigillato con cura in una piccola bottiglia». Pochi conoscevano allora con precisione la storia della rivolta ebraica di Varsavia e della tragedia che con essa si consumò, ma subito il testo dell‘ignoto combattente che, simile a un nuovo Giobbe, chiama in causa Dio e il suo silenzio di fronte al trionfo dell‘orrore cominciò una lunga e singolare peregrinazione per il mondo, fra Israele, Germania, Francia, Stati Uniti – trasformandosi via via, di traduzione in traduzione, in leggenda. Così la breve e fiera apostrofe a Dio di Yossl Rakover divenne simbolo, lascito testamentario di chi si rivolta contro l’iniquità. E quando il vero autore si fece vivo, rivelandosi come un ebreo lituano emigrato in Palestina allo scoppio della guerra, ci fu chi non volle accettare i fatti. Ne nacque una lunga vicenda di dispute, altamente borgesiana, che finalmente Paul Badde è riuscito a ricostruire: il suo resoconto viene qui proposto insieme a un saggio di Emmanuel Lévinas, che già nel 1955 aveva letto il testo di Kolitz come un «Salmo moderno» nel quale «tutti noi superstiti riconosciamo con sbalordito turbamento la nostra vita». A cura di Paul Badde e con un saggio di Emmanuel Lévinas. Traduzioni di Anna Linda Callow e Rosella Carpinella Guarneri.
Kolitz: «Ti voglio chiedere, Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: Che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo? «Ti voglio dire in modo chiaro e aperto che ora più che in qualsiasi tratto precedente del nostro infinito cammino di tormenti, noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo il diritto di sapere: Dove si trovano i confini della Tua pazienza?».
AMARE LA TORAH PIÙ DI DIO
di Emmanuel Lévinas, filosofo francese di origini lituane
Tra le recenti pubblicazioni consacrate in Occidente all‘ebraismo, i bei testi sono numerosi. In Europa i talenti abbondano. I testi veri sono però rari. L’esaurirsi degli studi ebraici da cent’anni a questa parte ci ha allontanato dalle fonti. Il sapere che ancora si produce non riposa su una tradizione intellettuale: resta autodidattico anche quando non è improvvisato. E che corruzione per uno scrittore essere letto soltanto da chi ne sa meno di lui! Privi degli stimoli della critica, gli autori confondono questa non-resistenza con la libertà e questa libertà con il colpo di genio. C‘è da stupirsi che i lettori non ci caschino e vedano nell‘ ebraismo, che nel mondo conta ancora alcuni milioni di seguaci impenitenti, un cumulo di sottigliezze materiali prive di qualunque interesse e importanza?
Abbiamo appena letto un testo bello e vero, vero come solo la finzione può esserlo. Pubblicato anonimo su un giornale israeliano, tradotto da Arnold Mandel col titolo Yossl figlio di Yossl Rakover di Tarnopol si rivolge a Dio per « La Terre retrouvée », periodico sionista di Parigi, sembra aver suscitato emozione in chi l‘ha letto. Merita di più. Esso testimonia un atteggiamento intellettuale molto più illuminante di certe letture d‘intellettuali, e dei concetti attinti, per esempio, dai testi di Simone Weil, ultimo grido della terminologia religiosa, come tutti sanno a Parigi. Questo testo, al contrario, rivela una scienza ebraica, pudicamente dissimulata ma sicura, e rispecchia un’esperienza di vita spirituale profonda e autentica.
Il testo si spaccia per documento, scritto durante le ultime ore della Resistenza nel ghetto di Varsavia. Il narratore sarebbe stato testimone di ogni sorta di orrori; avrebbe perso in condizioni atroci i suoi bambini. Unico superstite, ma per pochi istanti ancora, della sua famiglia, ci lascia a mo’ di testamento spirituale i suoi ultimi pensieri. Finzione letteraria, certo; ma finzione nella quale tutti noi superstiti riconosciamo con sbalordito turbamento la nostra vita.
Non ne racconteremo il contenuto, anche se il mondo non ha imparato niente e ha dimenticato tutto. Ci rifiutiamo di trasformare in spettacolo la Passione delle Passioni e di trarre, come autori o registi, qualche sprazzo di gloria da queste grida disumane. Esse riecheggiano e si ripercuotono, inestinguibili, per l‘eternità. Ascoltiamo soltanto il pensiero che ne emerge.
Che cosa significa questa sofferenza degli innocenti? Non testimonia forse di un mondo senza Dio, di una terra dove l‘uomo soltanto è la misura del Bene e del Male? La reazione più semplice, la più comune sarebbe una scelta di ateismo. E sarebbe anche la più giusta per tutti coloro ai quali un dio un po’ elementare ha finora distribuito premi, inflitto sanzioni o perdonato errori e che, nella sua bontà, ha trattato gli uomini da eterni bambini. Ma che demone ottuso, che strano mago avete dunque insediato nel vostro cielo voi che, oggi, lo definite deserto? E perché sotto un cielo vuoto cercate ancora un mondo sensato e buono?
Che Dio c’è, Yossl figlio di Yossl, lo prova con una forza nuova, sotto un cielo vuoto. Perché se lui esiste nella sua assoluta solitudine è per sentire sulle proprie spalle tutte le responsabilità di Dio. Sulla strada che porta al Dio unico c‘è una stazione senza Dio. Il vero monoteismo ha il dovere di rispondere alle legittime esigenze dell‘ateismo. Un Dio per adulti si manifesta per l’appunto attraverso il vuoto del cielo infantile. Momento nel quale Dio si ritira dal mondo e nasconde il volto (secondo Yossl ben Yossl). Egli «ha consegnato gli uomini ai loro istinti selvaggi» dice il nostro testo. E « quando la furia degli istinti domina il mondo, chi rappresenta la santità e la purezza “deve” essere la prima vittima ».
Dio che nasconde il volto: non è, a nostro parere, un‘astrazione da teologo e neppure un’immagine poetica. Rappresenta l’ora in cui il giusto non trova alcuna risorsa esterna, in cui nessuna istituzione lo protegge, in cui vien meno anche la consolazione della presenza divina nel sentimento religioso infantile, in cui l‘individuo non può trionfare se non nella propria coscienza, vale a dire necessariamente nella sofferenza. Senso tipicamente ebraico della sofferenza che giammai assume il valore di un’espiazione mistica per i peccati del mondo. La condizione delle vittime in un mondo in disordine, vale a dire in un mondo dove il Bene non riesce a trionfare, è la sofferenza. Essa rivela un Dio che, rinunciando a ogni manifestazione pietosa, fa appello alla piena maturità dell’uomo totalmente responsabile.
Ma questo Dio che nasconde il volto e abbandona il giusto alla sua giustizia senza trionfo — questo Dio lontano — viene dal di dentro. Un’intimità che coincide, per la coscienza, con la fierezza di essere ebreo, di appartenere concretamente, storicamente, semplicemente al popolo ebraico. «Essere ebreo significa essere … uno che nuota senza tregua contro una sordida, malvagia corrente umana … Sono felice di appartenere al più infelice di tutti i popoli della terra, la cui Legge rappresenta il grado più alto e più bello di tutti gli statuti e le morali ». L‘intimità col Dio virile si conquista con una prova estrema. Poiché io appartengo al popolo ebraico che soffre, il Dio lontano diventa il mio Dio. «Ora so che sei il mio Dio, poiché di certo non sei, no, non puoi essere il Dio di quanti, con le loro azioni, hanno dato la prova più atroce di empietà in armi ». La sofferenza del giusto per una giustizia senza trionfo è vissuta concretamente come ebraismo. Israele — in senso storico e materiale — ridiventa categoria religiosa.
Dio che nasconde il volto, e riconosciuto come presente e intimo: è possibile? Siamo di fronte a una costruzione metafisica, a un salto mortale paradossale di gusto kierkegaardiano? Noi pensiamo che qui si riveli, al contrario, la fisionomia particolare dell‘ebraismo: il rapporto tra Dio e l’uomo non è comunanza di sentimenti d’amore per un Dio incarnato, ma relazione tra spiriti: intermediario un insegnamento, la Torah. E proprio una parola, non incarnata da Dio, che garantisce la presenza di un Dio vivente in mezzo a noi. La fiducia in un Dio che non si manifesta attraverso alcuna autorità terrestre non può riposare che sull‘evidenza interiore e sul valore di un insegnamento. Tale fiducia, sia detto a onore dell‘ebraismo, non è affatto cieca. Da cui la frase di Yossl ben Yossl — punto culminante del monologo che riecheggia tutto il Talmud: Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui ». Bestemmia? Quanto meno protezione contro la follia di un contatto diretto col Sacro senza la mediazione della ragione. Ma soprattutto, fiducia che non riposa sul trionfo di un‘istituzione, evidenza interiore della morale contenuta nella Legge. Cammino difficile, già sul piano dello spirito e della verità, e che non ha più nulla da prefigurare. Simone Weil, lei non ha mai capito nulla della Torah! «Benché il nostro Dio sia il Dio della vendetta» dice Yossl ben Yossl «e nella nostra Legge abbondino le minacce di morte per le più piccole colpe, tuttavia si racconta nella Gemara che era sufficiente che il Sinedrio, il più alto tribunale del nostro popolo quando era libero nella sua terra, pronunciasse una sola condanna a morte in settant’anni, perché si potesse gridare ai giudici: “Assassini!”. Il Dio dei popoli invece, che viene chiamato Dio d’amore, ha comandato di amare ogni essere creato a sua immagine; ma nel suo nome veniamo assassinati senza pietà, giorno dopo giorno, da duemila anni ».
La vera umanità dell’uomo e la sua virile dolcezza entrano nel mondo con le parole severe di un Dio esigente; lo spirituale non si concede come una sostanza sensibile, ma attraverso l’assenza; Dio si concreta non mediante l’incarnazione, ma mediante la Legge; e la sua grandezza non è il soffio del suo sacro mistero. La sua grandezza non provoca timore e tremore, ma ci colma dei pensieri più nobili. Nascondersi il volto per esigere dall‘uomo — sovrumanamente — tutto, aver creato un uomo capace di rispondere, capace di affrontare il suo Dio da creditore e non, come al solito, da debitore – che grandezza veramente divina! Il creditore, dopotutto, ha fede più di chiunque, ma è anche colui che non si rassegna alle fughe del debitore. Il nostro monologo incomincia e finisce con questo rifiuto della rassegnazione. Capace di confidare in un Dio assente, l‘uomo è altresì l‘adulto che misura la propria debolezza: la situazione eroica nella quale egli si trova rende il mondo pregevole, ma lo mette anche in pericolo. Reso maturo da una fede nata dalla Legge, egli rimprovera a Dio la sua smisurata grandezza e le sue esigenze eccessive. E dichiara che lo amerà, qualunque cosa Dio faccia per scoraggiare il suo amore. Ma « non tendere troppo la corda » grida Yossl ben Yossl. La vita religiosa non può concludersi con questa situazione eroica. Bisogna che Dio sveli il suo volto, bisogna che la giustizia e la potenza si uniscano, bisogna che ci siano su questa terra istituzioni giuste. Ma solo l’uomo che ha riconosciuto il Dio velato può pretenderne lo svelamento. In che termini di vigorosa dialettica si stabilisce l‘uguaglianza tra Dio e l‘uomo pur nell‘evidente sproporzione tra i due!
Eccoci lontani tanto dalla comunione calda e quasi sensibile con il Divino, quanto dall‘orgoglio disperato dell’ateo. Umanesimo integrale e austero, legato a un’adorazione difficile! E, inversamente, adorazione che coincide con l’esaltazione dell’uomo! Un Dio personale, un Dio unico, che non si rivela come un‘immagine in una camera oscura! Il testo che abbiamo commentato mostra come l’etica e l’ordine dei princìpi instaurino un rapporto personale degno di questo nome. Amare la Torah ancor più che Dio è per l‘appunto accedere a un Dio personale contro il quale ci si può rivoltare, per il quale, cioè, si può morire.
(da Zvi Kolitz Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi 1997)
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