RI LUNI S’ACCUMINCIA A FARI CIANTU…

Piange, a cominciare dal lunedì dopo la benedizione delle Palme, l’intera comunità iblea. La contea in tutte le sue contrade vive il dolore della tragedia dell’uomo in ogni suo angolo e lo fa in ogni luogo in un modo diverso, ponendo sempre l’accento sul dolore che si fa comune sentire. “Ciantu ca rura tutta la simana…” il pianto lo si ode per tutta la settimana, la Settimana Santa. Il periodo della Pasqua negli iblei incide profondamente negli animi e nelle abitudini della gente. In passato addirittura, in questo periodo, segnato da quel pianto che dal lunedì apriva la settimana, una serie di regole e imposizioni davano il ritmo a leggi sempre uguali, rimaste immutate e che per questo esse stesse avevano quasi il sigillo del rito. Un detto per tutti indica per esempio il veto assoluto di prendersi cura del proprio corpo: malaritta chidda trizza ca ri venniri s’antrizza, biniritta chidda pasta ca ri venniri s’ampasta. Divieto assoluto, dunque, di dare corso ad abitudini quotidiane semplici come il pettinarsi, lo specchiarsi, o il lavarsi il viso. Al contrario preparare per il pranzo del sabato era un’altra faccenda, addirittura così ben vista da essere benedetta! “A lu marti ci lu passa lu cantu…” Il canto, il lamento, la recita sottovoce delle orazioni funebri. Numerosissime sono nella tradizione orale iblea le testimonianze di componimenti poetici in rima e ordinate metricamente che hanno per tema la passione di Cristo. Citarle diventa impossibile ma in tutte è riscontrabile un atteggiamento costante. Chi recita sembra essere colto da un sentimento di rassegnazione di fronte al martirio della carne e allo scempio dell’animo. Un atteggiamento che d’amblais, può essere travisato. Osservando però gli oratori che pregano e quelli che recitano sembra chiaro che quel sentimento di perdita, di rassegnazione evolve verso un sentimento più nobile che è quello della trasmissione, del monito, dell’insegnamento a non dimenticare. “A lu miercuri si fa la quarantana, a lu jovi si risponi Cristu Santu…”. Nelle preghiere e nei cunti che restituiscono la cattura di Cristo c’è una grande passione. Raccontano le donne della nostra terra, mentre gli uomini le stanno ad ascoltare, del momento più tragico che anticipa poi il delitto più intollerabile: quello dell’uomo che sopprime l’Uomo. Lo catturano il giovedì sera, lo trascinano fuori di casa, e Maria da dietro la porta avverte lo scempio del corpo del figlio e prega che non gli facciano troppo male. Torna la preghiera di Maria, la donna madre, emblema di tutte le madri. “A lu venniri è di lignu la campana…”. La frase si riferisce all’uso antichissimo di legare i campanacci alle bestie perché non risuonassero nelle vallate iblee. Le campane tacciono dunque. Sulla morte dell’uomo cade il grande silenzio. È il culmine della passione, quel momento che a Ispica viene vissuto con tragico trasporto. “A lu sabbutu Maria sparma lu mantu…”. Il manto nero del lutto si adagia sulle vallate sui fianchi delle colline. U niuru cummuogghiu: il segno indelebile del lutto si posa inesorabile sul destino dell’Uomo e dopo di lui, per sempre, sul destino dell’uomo povero, povero perché si è macchiato di quel nefasto delitto. Il manto nero della Madonna cade sulle speranze degli uomini e cancella ogni altro colore, ogni altra aspettativa, ogni gioia e sorriso. Non c’è dunque speranza per la comunità tutta? È mai possibile che tanto dolore non trovi risoluzione alcuna? “A la ruminica Gesù Cristu an- cielu acciana.” . La preghiera conclude con un segno di grande speranza che a Scicli e a Modica si riconosce nella festa collettiva che festeggia la resurrezione dell’Uomo Re come una speranza per l’uomo povero. Su tutti, abbandonato il manto nero, cade la benedizione della Madre di Dio e nel volo delle colombe si  libera la gioia della comunità tutta.

 

 

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