Restare con chi non c’è più: il segreto che ci lega per sempre ai nostri cari

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

La morte ci sorprende sempre, perché la vita ci educa a credere che ogni problema abbia una soluzione. È l’unica certezza che abbiamo e, al tempo stesso, l’unica per la quale non siamo mai pronti. Lo diceva già Montaigne, “Filosofare è imparare a morire”, ma nessuno è davvero preparato a farlo. Quando arriva, chi resta piange non solo per la persona scomparsa, ma anche per se stesso: per la sensazione di impotenza, per il vuoto che cambia tutto. Quel dolore parla anche del nostro bisogno di controllo e della paura di perderlo.

Viviamo in una società che rimuove ciò che non è utile, che non produce, che non si può velocizzare. La morte non appartiene a nessuna di queste logiche: è lenta, definitiva e incompatibile con un mondo che corre. Eppure, proprio il lutto ci insegna a fermarci, ad ascoltare il silenzio, a capire che il valore della vita non sta nella durata, ma in ciò che lascia dietro di sé.

Dopo poco tempo, però, l’ambiente attorno smette di tollerare la tristezza: chi soffre viene spinto a nascondere il dolore, a fingere un sorriso per non disturbare. Ma il dolore non si dissolve con la distrazione — si allevia solo quando viene accolto, riconosciuto, ascoltato senza giudizio. Il dolore non è un problema da risolvere, ma una realtà da attraversare.

L’amore autentico non ha bisogno di frasi o promesse: richiede presenza, anche muta. Occorre rispettare la sofferenza altrui, evitare parole vuote, e offrire semplicemente una mano, una vicinanza discreta. L’amore vero non consola: accompagna. Rainer Maria Rilke lo scriveva già tempo fa: “L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono, si toccano e si salutano”.

Nei periodi come Halloween o la commemorazione dei defunti, o di fronte a notizie di cronaca, la memoria delle perdite riaffiora. Ogni morte, anche lontana, risveglia quella personale, i dolori che non svaniscono mai del tutto. Il lutto non chiede di essere curato, ma accolto: ciò che ferisce non è solo l’assenza, ma la difficoltà degli altri a restare, il loro imbarazzo, il silenzio che ne deriva. Forse il dolore è proprio quel momento in cui siamo costretti ad alzarci e misurare la nostra altezza.

La perdita può avere molti volti: una persona, un animale, un legame profondo. E anche le morti pubbliche — di artisti o personaggi noti — ci toccano, perché ci ricordano che nessuno è al sicuro e riportano a galla i nostri dolori privati.

Il lutto è un continuo oscillare tra incredulità, rabbia e accettazione. Spesso la rabbia serve a sopravvivere, a spostare altrove il dolore. Poi arrivano i sensi di colpa, il pensiero di non aver fatto o detto abbastanza: è il modo con cui tentiamo di dare senso a ciò che non ne ha. Victor Hugo lo diceva meglio di me: “Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo”.

Ciò che rende la perdita così difficile è la sua irreversibilità. Viviamo in un mondo che corregge tutto, ma la morte è l’unica cosa che non si può cambiare. All’inizio il dolore è violento, poi si trasforma in una tristezza più quieta, che rimane. Quando gli altri smettono di chiedere come stai, arriva la solitudine del lutto: il dolore non sparisce, muta forma.

Il tempo non guarisce davvero: attenua, leviga, ma non cancella. Con l’abitudine si impara a convivere con l’assenza, ma la società impone di “reagire”, di tornare presto alla normalità. Chi soffre si trova così a dover nascondere la propria tristezza per non mettere a disagio gli altri, che spesso non sanno ascoltare. Eppure chi ha perso qualcuno ha un bisogno profondo di parlarne, di far vivere ancora quella persona attraverso le parole. Il ricordo è l’unico paradiso dal quale non possiamo essere cacciati. Nel lutto, più che mai, ciò di cui abbiamo bisogno è accoglienza, ascolto e la possibilità di condividere senza sentirci un peso.

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