QUESTO MARE È IL NOSTRO MARE

 L’aumento del prezzo del costo del barile di petrolio ha determinato nei mari del nostro Paese – complice la relativa semplicità delle procedure e l’esclusione delle comunità locali dalla partecipazione ai procedimenti autorizzativi – il proliferare esponenziale delle istanze volte all’esplorazione ed allo sfruttamento dei pur esigui giacimenti dell’oro nero. Dalle piattaforme marine d’estrazione si ricavano ogni anno poco più di mezzo milione di tonnellate di petrolio, di cui circa 200mila tonnellate dalle 4 trivelle poste nel mare davanti a Ragusa e a Gela. È un quantitativo risibile, circa il 12% di tutto il petrolio estratto per terra e per mare in Italia ma solo lo 0,6% dei quasi 80 milioni di tonnellate consumati nel nostro Paese. Un quantitativo irrilevante dal punto di vista del suo possibile contributo all’indipendenza energetica del Paese ma evidentemente molto remunerativo – con il barile ad oltre 70 dollari – per le Compagnie petrolifere che puntano ad esasperare lo sfruttamento dei giacimenti dando un’ulteriore e rapida strizzata a ciò che resta nei pozzi (vedi incremento estrazioni dai pozzi siciliani: + 130% nei primi due mesi del 2010 ed altri certamente se ne verificheranno con la ripresa a pieno regime del campo pozzi Vega della Edison dopo la sostituzione della nave-deposito). E mentre la Shell dice di aver trovato un nuovo Texas e si prepara a trivellare i fondali nell’area delle Egadi a caccia di 150.000 barili al giorno a profondità anche di 5.000 metri (minchia, signor Tenente!! pare che siamo in Lousiana…!) è ormai partita la nuova corsa all’oro nero di Sicilia con 12 permessi di ricerca già rilasciati (il 50% del totale di 24 concessi dal Ministro per l’Ambiente  e della Tutela del Territorio e del Mare di concerto con il Ministro per i Beni Culturali) e diverse decine di nuove richieste in stand-by, stoppate dalle proteste che si sono levate in questi mesi. È la Sicilia l’area su cui si stanno concentrando i maggiori appetiti senza che la Regione ed il suo governo abbiano avviato una riflessione sugli impatti ambientali, sui rischi e sugli effetti che trivellazioni e coltivazione dei pozzi marini avranno sul “mare territoriale siciliano”, sulle coste, sulla pesca, sui trasporti marittimi, sulle aree marine protette, sul turismo e sulle altre attività industriali ed economiche dell’isola. Dopo le proteste delle comunità locali e delle associazioni ambientaliste il governo italiano annuncia ora provvedimenti per sottoporre a VIA anche le attività di ricerca e per vietare prospezioni ed estrazioni nella fascia entro le 5 miglia dalla costa e 12 miglia dalle aree marine o di costa protette. Misure che sono però insufficienti a riportare i rischi e gli impatti entro un quadro di accettabilità commisurato alle risorse ed ai mezzi esistenti per sorvegliare e gestire adeguatamente questi aspetti. È una legge “fotografia” che lascia le cose come sono e non disturba le Compagnie petrolifere che potranno continuare indisturbate ad estrarre dove sono già ed a trivellare un po’ più in là. Bastasse questo… Sulla dimensione del rischio gioverà ricordare quanto Legambiente da tempo rappresenta: L’incidente dello scorso 20 aprile della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico ha prodotto una “macchia nera” larga quanto l’area che va dal Gargano a Trieste. In Italia, pure con tutta la buona volontà ed i grandi mezzi della Protezione Civile, sarebbe impossibile affrontare un tale disastro.  Ma non solo: le coste del nostro Paese sono storia, cultura, economia, sapori, bellezza di straordinaria unicità ed importanza – ma anche fragilità – che non si disinquina e ripristina subito e senza danno. Sul piano dei rischi bisogna ricordare con la dovuta fermezza ed insistenza che il nostro Paese, come gli altri che si affacciano sul Mediterraneo – e pure nell’Atlantico teatro delle sciagure dell’Erika e della Prestige -, non dispone di sistemi idonei a fronteggiare e gestire catastrofi come lo sversamento di idrocarburi da una nave petroliera che si spezzi in due tronconi o il collasso di una piattaforma petrolifera con la fuoriuscita del greggio dal pozzo.  Non ci sono i mezzi marittimi – che non sono e non bastano certo i rimorchiatori in servizio antinquinamento che posizionano panne galleggianti – per contrastare l’avanzata della marea nera, non ci sono i piani di emergenza da attuare perché mai si pensa che potrà accadere un tale incidente, non ci sono sufficienti persone addestrate (sui mezzi navali ed anche a terra) per rendere operativo un piano che salvaguardi vite umane, mare, coste, flora e fauna marina.

 

Ed è sempre la Sicilia il soggetto più esposto al rischio petrolio. Con i suoi poli di raffinazione petroliferi di Augusta/Priolo, Gela e Milazzo dove ogni anno arrivano quasi 10.000 petroliere che  movimentano – in entrata ed in uscita – circa 70 milioni di tonnellate di petrolio. Ma anche perché la gran parte delle 300 petroliere che ogni giorno transitano dal Mare Nostrum passano accanto alle coste dell’isola, cariche di grezzo e di rischi di cui i Siciliani ed il governo regionale non sembrano consapevoli. Abbiamo lavorato tanto e fatichiamo ancora per preservare riserve ed aree marine protette, un gran lavoro ed un gran tesoro che rischia sempre di andare in malora se la prossima “Erika” affondasse qui o se la prossima Deepwater Horizon si rompesse alle Egadi. Occorre quindi che questo governo regionale, che propugna l’autonomia, faccia proprie le richieste che vengono dalla comunità e dalle associazioni ambientaliste: L’affermazione che “questo mare è il nostro mare” e la rivendicazione – in forza dello statuto – della titolarità della Regione sul demanio marittimo e sul mare territoriale;

–          L’approntamento di un vero, ponderato ed attuale Piano Energetico ed Ambientale che comprenda anche la questione relativa alla gestione ed all’uso dei giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi in mare e sulla terraferma;

–          il divieto di ulteriori ricerche, prospezioni e estrazioni di idrocarburi nel mare territoriale siciliano;

–          obbligo per le Compagnie che attualmente eserciscono le piattaforme nel mare territoriale siciliano di presentare fidejussioni di importo adeguato a far fronte allo scenario di incidente più grave;

–          la predisposizione e l’approvazione di un piano di dismissione in tempi rapidi delle attività di estrazione in essere con la rimozione delle piattaforme;

–          l’istituzione e la realizzazione di efficaci strutture di sorveglianza e di gestione del rischio nei porti petroliferi e lungo le coste dell’isola;

–          la realizzazione – all’interno di uno dei porti petroliferi della regione – di un porto “rifugio” in grado di ospitare e dare la necessaria assistenza alla nave petroliera in fase di collasso, e ciò per evitare quanto poi verificatosi con le navi Haven, Erika e Prestige;

–          la nomina dell’Assessore per il Mare a cui venga assegnato il compito di tutelare – in senso lato – coste e mare territoriale.

 

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