QUANTO E’ BELLO AMAZON!

Sappiamo che Jeff Bezos è ultramiliardario. E dunque non riusciremo a immaginarlo – neanche con un certo sforzo – a fare sit-in a Wall Street accanto a quelli di Occupy. Ma il padrone di Amazon è un tipo simpatico, come d’altronde molti altri golden boys dell’informatica – Bill Gates, Steve Jobs, Larry Page, Mark Zuckerberg – tutti paperoni, tutti “ragazzi”, tutti genialmente capaci di modificare le nostre vite (molto più di quanto non siano stati, che so?,  i dirigenti del partito comunista cinese)e però anche capaci di farci sopra un mucchio di quattrini.

So bene che gratta un po’ e qualche magagna viene fuori dalle lenzuola bianche di qualcuno di loro, come pare sia in riferimento alle politiche industriali della Apple e a sue responsabilità nell’ambito dello sfruttamento di manodopera minorile. Ma il capitalismo informatico ha qualche chance di strapparci mezzo sorriso di compiacimento per via delle sue origini – mettiamola così – giocose! Non stiamo dicendo che gli inventori di Microsoft, Apple, Google, Facebook si siano trovati di punto in bianco a gestire fatturati di miliardi di dollari trastullandosi incoscientemente con i loro algoritmi, adolescenti brufolosi e forse anche un poco timidi. Sappiamo tutti bene che per essere arrivati dove sono ci hanno dato dentro alla grande con una sensibilità imprenditoriale che non ha nulla da invidiare ai padroni delle multinazionali.

Il gioco che segna indelebilmente queste gigantesche creature dell’universo binario è quello che viene denotato dal segno linguistico inglese to play, che sta per giocare, ma anche per eseguire, interpretare, inventare. Insomma, il capitalismo informatico è un capitalismo dell’intelletto e della creatività, sorge e si dispiega sul terreno delle opere dell’ingegno e si caratterizza fortemente per la capacità di mantenere una sorta di costante “connotazione” di libertà: i suoi prodotti generano appartenenza, sono trendy, fanno giovane e così via.

Certo, siamo sul filo delle sfumature: chissà quanti imprenditori grideranno che anche loro hanno “inventato” qualcosa, e forse questo sarà vero per settori come la moda, l’estetica, persino l’automobilistico. Ma rimane il fatto che per loro non si produce quel sentimento (e quell’idea) di violenza e di sopraffazione che si incolla fatalmente alle origini di ogni impresa capitalistica:  le grandi multinazionali farmaceutiche, quelle petrolifere, quelle siderurgiche sembrano tutte in grave debito d’immagine e di “etica”.

Forse la faccenda è tutta qua: un capitalismo un po’ più umano, creativo, giocoso, dispenserebbe dal dover ricorrere al solito ricorrente, ciclico, inevitabile bagno di sangue per ripristinare un minimo di equilibrio.

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