…POVERI …LAVORATORI!

Eurostat (l’Istituto Europeo di Statistica) ha pubblicato i dati relativi ai salari del 2009, e confermando analogo rapporto già pubblicato dall’OCSE  ha rilevato che le retribuzioni in Italia sono tra le più basse nell’area Euro.

L’Istat si è affrettata a correggere il tiro rettificando i dati (pare che fossero stati comparati per l’Italia i dati del 2006), ma anche prendendo per buone le correzioni istat le retribuzioni “lorde” restano abbondantemente inferiori alla media di quelle dei Paesi Euro e considerando poi il peso del nostro “cuneo fiscale” (gli oneri fiscali e contributivi che gravano sui salari) ecco che i redditi netti tornano nuovamente tra i più bassi dell’area Euro.

In più, il dato 2009 non è ancora interessato dalla crisi economica che ci ha aggredito con maggior virulenza che altri paesi, e non è ancora influenzato dal congelamento delle dinamiche contrattuali decise dal governo per i pubblici dipendenti che per 5 anni dal 2008 non vedranno il rinnovo del contratto.

Negli stessi giorni, la pubblicazione dei compensi dei manager pubblici ha evidenziato che non solo i nostri politici, ma anche i nostri manager sono tra i più pagati al mondo con rapporti rispetto agli omologhi manager degli altri paesi che oscillano tra l’incredibile e il grottesco.

La vicenda stimola più di una riflessione in merito alle categorie economiche che reggono il nostro Paese.

Specifico che voglio operare una riflessione di ordine “economico” senza avventurarmi in facili pistolotti moralistici per evitare di fornire alibi a chi considera questo tipo di argomenti “da bacchettoni”.

Prima considerazione: anche questa vicenda conferma quella che oramai è un’evidenza consolidata, il nostro è un Paese ad alto tasso di disuguaglianza!

Nell’ambito dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico con 34 paesi aderenti) solo 5 paesi hanno un indice di disuguaglianza superione al nostro ( 35% calcolato con l’indice di Gini) ed esattamente nell’ordine: Polonia (37%), Stati Uniti (38%), Portogallo (42%), Turchia (43%) e Messico (47%).

A prescindere dal dato numerico che come sappiamo costituisce una semplificazione estrema, quello che ci interessa è il fatto che ci troviamo anche in questo caso nella parte bassa (29esimi) della classifica.

Qualcuno potrebbe snobbare la valenza economica del dato pensando che sia influenzato ideologicamente da un nostalgico egualitarismo d’altri tempi, ebbene il dato è preso da un coraggioso studio “RICCHI E POVERI – L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili” scritto dal prof. Franzini che non è un moralista ma è ordinario di Politica Economica alla Sapienza di Roma ed è pubblicato da una casa editrice di chiara appartenenza veteromarxista: la Università Bocconi Editore.

Il volume confuta una tesi di moda negli anni ’90 e rivelatasi infondata secondo cui le disuguaglianze sono funzionali alla crescita economica e al contrario vengono citate ricerche scientifiche che invece mettono in stretta relazione il benessere sociale non con l’aumento del reddito pro-capite, ma con la diminuzione della disuguaglianza:“in un lavoro recente e di grande successo, Wilkinson e Pickett (2009) presentano un’impressionante mole di dati, relativa a un gran numero di paesi, a sostegno della tesi che dove la disuguaglianza è minore la qualità della vita è migliore sotto moltissimi aspetti” (per chi volesse approfondire la ricerca citata è pubblicata da Feltrinelli “LA MISURA DELL’ANIMA”).

Seconda considerazione: Il dibattito politico in corso sugli stimoli alla crescita e il mercato del lavoro è incentrato ancora una volta sulla riduzione dei diritti (art. 18) quasi fossero i diritti l’ostacolo alla crescita.

Ora non credo che ci sia dubbio sulla considerazione che il dato sulle retribuzioni di cui discutiamo sia influenzato dal fatto che i lavoratori assunti negli ultimi 10 anni “grazie” (!) alle norme sulla flessibilità in effetti siano oltre che per niente garantiti meno pagati dei lavoratori più anziani.

In pratica abbiamo fatto dei giovani in Italia una casta di “paria” senza diritti e a basso reddito!

Ma la ripresa è più ostacolata dall’articolo 18 o dalla contrazione della domanda interna derivante dal basso reddito degli Italiani (e dal bassissimo reddito dei giovani Italiani!)?

Alla luce dei dati dell’Eurostat si può essere ancora convinti che la diminuzione dei diritti e dei salari sia la strada corretta?

Non vale la pena, alla luce dei disastrosi risultati di queste politiche, parlare invece di sviluppo della produttività stimolando gli investimenti, l’innovazione e la ricerca e della domanda interna tramite la diminuzione delle disuguaglianze e la ripresa di dinamiche salariali positive?

A tal proposito mi sembra assolutamente emblematica la vicenda FIAT: il “buon” Marchionne ha dapprima ottenuto con “il bastone” del ricatto occupazionale e “la carota” della promessa di investimenti (20 miliardi assolutamente virtuali), la deroga alla contrattazione collettiva, quindi una diminuzione delle tutele dei lavoratori; adesso annuncia che se le vendite in nord america continueranno ad andare male chiuderà 2 stabilimenti italiani: invece di puntare tutto sulla “convenienza produttiva” (sulle spalle dei lavoratori), non sarebbe stato più conducente puntare sull’innovazione (nessun nuovo modello e nessun sostanziale miglioramento qualitativo dell’esistente) per aumentare l’appetibilità del prodotto?

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it