Perché si sfasciano le comitive: colpa degli uomini o delle donne?

All’inizio una comitiva è un miracolo sociale: persone diverse che si scelgono, ridono delle stesse sciocchezze, condividono pizze fredde, vacanze improbabili e sogni enormi. È una piccola utopia affettiva, un laboratorio di identità in cui ciascuno trova un ruolo: il leader, il saggio, il comico, quello che “arriva sempre dopo”. Poi, quasi sempre, qualcosa si incrina. E la domanda nasce spontanea: perché le comitive si sfasciano?

Dal punto di vista psicologico, la comitiva è un organismo vivo. Come ogni organismo, cresce, cambia e, a volte, muore. All’inizio domina il bisogno di appartenenza: essere parte di un gruppo ci rassicura, ci conferma che esistiamo. Freud direbbe che il gruppo funziona come un Io allargato, capace di proteggerci dall’ansia. Ma col tempo l’Io individuale reclama spazio. I desideri cambiano, le priorità pure, e ciò che prima univa ora inizia a stonare, come una canzone amata ascoltata troppe volte.

Poi arrivano le famigerate “fasi della vita”. L’università, il lavoro, le relazioni sentimentali, i figli, i figli, i figli: eventi normalissimi che però agiscono come terremoti silenziosi. C’è chi accelera e chi resta fermo, chi vuole parlare di mutui e chi ancora di serate fino all’alba. Jean-Paul Sartre scriveva che “l’inferno sono gli altri”, ma solo quando smettono di rispecchiare l’immagine che abbiamo di noi. Nelle comitive, questo accade spesso: improvvisamente l’altro diventa uno specchio scomodo.

A peggiorare la situazione interviene la comunicazione, o meglio la sua assenza. Le comitive raramente litigano apertamente, preferiscono il sottile veleno dei non detti, dei gruppi WhatsApp silenziati, delle uscite organizzate “per sbaglio” senza qualcuno, delle esclusioni preterintenzionali. In queste forme, le dinamiche di gruppo possono degenerare a volte in squallore, meschinità, bullismo, viltà, insensibilità in cui l’individuo può esprimere (in rarissimi casi, per fortuna) il peggio di sé. 

L’ironia, un tempo collante, si trasforma in arma passivo-aggressiva. Oscar Wilde diceva che “l’ironia è la forma più alta di intelligenza”, ma in certi gruppi diventa la forma più elegante di fuga.

C’è poi il mito dell’eterna comitiva, quella che “noi saremo amici per sempre”. Un’idea romantica, ma poco realistica. Le comitive non sono famiglie né contratti a tempo indeterminato: sono incontri, non promesse. Pretendere che restino identiche nel tempo è come chiedere a una foto di invecchiare con noi. Quando non lo fanno, la delusione è inevitabile.

Eppure, lo sfascio di una comitiva non è necessariamente un fallimento. A volte è solo una trasformazione: da gruppo a ricordi, da presenza costante a nostalgia selettiva. Come scriveva Marcel Proust, “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Forse le comitive si sfasciano perché servono a portarci da qualche parte, non a restare.

In fondo, se una comitiva finisce, vuol dire che ne esisterà un’altra. Più bella, magari. E non è poco. Today.

Una cosa è certa. Se una comitiva resiste, il merito è solo delle donne. Se si sfascia, la colpa è solo di noi uomini. Forse.

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