Perché si “litiga” così tanto nella politica (a Roma e a Ragusa)?

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Sigmund Freud nel millennio scorso definì l’inconscio e primordiale meccanismo di difesa che inclina gli esseri umani a diatribare qua e là. Usò un termine tecnico dal chiaro etimo latino: pulsio fanculationis”, più ellitticamente, “fanculatio”. Almeno così ricordo, ma potrei sbagliarmi (mi sono laureato alla Sapienza di Roma non molti anni dopo l’invasione dei Visigoti e sono trascorse tante di quelle arterie oramai).
In questo ottobre incandescente e sulfureo come un agosto di ordinaria e lucifera energia, in questo Oktober Faust, insomma, si discute un minimo, possiamo dircelo. Ci si spettina animosamente. Nella politica nazionale e locale. Dalle Alpi alle Piramidi, dal Mazzarino all’Irminio, da San Giovanni a Santa Maria delle Scale.

Sulle schermaglie e le paci e le ri-liti e i pizzini tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, rea di essere giovane, vincente, capitana (e per di più donna), faranno una serie su Raiplay. Con la regia attonita di un allibito Mattarella. E di un Paese sgomento tra bollette assassine, guerre quasi atomiche e innumerevoli ladri di futuro sparsi ovunque.
Come ho già scritto altrove, io pagherei per essere oggi nella testa del Presidente Mattarella. Difronte alle barzellette, i retrocapitomboli e gli “psicodrammi” portati in scena da Berlusconi, l’insediamento di un Presidente della Camera che, secondo alcuni commentatori, più divisivo non si può a livello planetario, un’opposizione che in buona parte sa solo litigare per le vicepresidenze … Un siciliano serio, che sa il dramma della precarietà dei fragili e dei nipoti, difronte a questo teatro osceno, cosa potrebbe dichiarare in corsivo al New York Times, se non un misterioso e roboante: “Ma che minchia!?”
Non so voi come la pensate, ma per me: Sergio Re d’Italia subito!

Anche da noi non si scherza. Ma a Ragusa i politici sono almeno più educati, più responsabili e lucidi anche quando litigano e si separano all’improvviso. È il caso a tutti noto di questi ultimi giorni. Dopo Giorgia e Silvio, Peppe e Ciccio. Il sindaco Giuseppe Cassì ha ufficialmente disassessorato Francesco Barone da ogni cosa. Credevamo tutti che la lite più roboante fosse quella tra la Meloni e Berlusconi. No. Nel cuore pimpante di questo agosto ibleo ne succedono di tutte. È venuto meno il rapporto di fiducia. Quali le ragioni profonde e le conseguenze politiche? Alcuni commentatori, da un pochino di tempo (quattro anni), nel rispetto dovuto ad entrambe le personalità, si domandavano: “Ma cosa ci azzeccano loro due insieme?” Troppo diversi per storia, formazione, temperamento. E ruolo sotto canestro.

Verosimilmente entrambi perderanno consensi qua e ne troveranno di nuovi altrove. In bocca al lupo a tutti e due. È già pronta una Maratona Mentana di 14 ore per sviscerare la questione tra i due. E una serie di sedici stagioni su Netflix. Avrà un titolo forse rivelatore: “La maledizione di Caravaggio.”
E anche sui social riverbera la litigiosità politica di noi utenti e commentatori. Politici o civili o semplicemente tastieristi seriali. E tuttavia, ironie a parte, perché mai si litiga così tanto quando si fa politica e si parla di politica? Perché nel bosco profondo di questo tema si frantumano in scioltezza antiche amicizie e insorgono così spesso autentiche faide familiari del genere “Il Trono di Spade”? Come mai riusciamo a discettare civilmente di cinema, musica, cucina, tv, arte (persino di Caravaggio a Ragusa!), ma quando arriviamo a lambire la politica, il rischio che la conversazione degeneri in “rissa” e paglionibus diventa sempre consistente ed elevato?

Una possibile risposta arriva dall’Università di Santa Barbara: al contrario di altre forme di differenze, per le opinioni politiche entrerebbe in gioco un modulo mentale innato del nostro cervello, responsabile della categorizzazione delle persone che ci circondano in amici o nemici, alleati e rivali (avversari). E quando una persona esprime idee che riflettono una visione politica differente dalla nostra, la mente la assegna automaticamente ad una coalizione rivale. Per il nostro cervello, l’affiliazione politica non è assimilabile all’avere una posizione filosofica spassionata, ma richiama maggiormente il fare parte di una “banda”, di una “setta”, di una fazione non meramente ideologica, di una “gang” o un club o circolo ristretto. E, sommessamente soggiungo dall’Università di Ibla, va tutto bene. Purché ad essere ristretto non sia anche il nostro cervello.

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