“Overkilling”: la parola che racconta la furia dietro il delitto Lucifora. L’ex carabiniere Corallo si è consegnato in carcere

Lui dal giorno dopo la sentenza è rinchiuso a Santa Maria Capua Vetere dove si è consegnato. Overkilling: questa è la parola utilizzata anche dalla Corte d’Assise d’Appello che indica il modo violento, impulsivo e rabbioso con il quale Davide Corallo ha ucciso Peppe Lucifora. Non un omicidio premeditato scriveva la Corte d’Assise di Appello nelle 390 pagine di motivazioni – che ribaltavano la sentenza di assoluzione con formula piena pronunciata in primo grado -, e nemmeno preordinato. Un’uccisione avvenuta con “modalità efferate e violentissime”.

La condanna a 15 anni di carcere (una parte già scontata in regime di custodia cautelare) deriva da un computo matematico: il reato contestato a Corallo imponeva una pena tra i 21 e 24 anni. Lui è stato condannato, negli effetti, a 22 anni e 6 mesi ridotti di un terzo per il rito abbreviato: 15 anni appunto, la pena finale. Un complesso di indizi e una prova scientifica che viene dettagliata, scandagliata minuziosamente in oltre 350 pagine delle 380 complessive, hanno condotto la Corte a ritenere, “oltre ogni ragionevole dubbio” che sia stato Davide Corallo ad ammazzare Lucifora. La Cassazione ha rigettato il ricorso, rendendo definitiva la condanna.

La scoperta del cadavere

Lucifora avrebbe dovuto, nel pomeriggio del 10 novembre del 2019 effettuare un catering al domicilio di un cliente ma di lui non c’era traccia. Non avendo risposta fu il cliente a recarsi a casa di Lucifora, ma lui non rispondeva al citofono. Una vicina di casa, allora gli riferiva di non averlo visto per tutto il giorno. Scatta l’allarme, si contattano i famigliari, poi l’arrivo dei vigili del fuoco per aprire la porta di casa. La scoperta drammatica. Il corpo del cuoco modicano venne trovato chiuso a chiave nella camera da letto, riverso a terra, semi svestito.

Il volto tumefatto, colpito con tale violenza da procurare fratture agli zigomi, alle orbite oculari, al naso e poi lo strangolamento. Overkilling, termine che spesso indica un legame tra vittima e carnefice, una furia omicida, tipica dei delitti con movente passionale. Non si era difeso. E vittima e carnefice avevano una relazione. Il telefono di Lucifora non venne mai trovato, e nemmeno quella chiave che chiuse la porta della stanza da letto.   

Cosa accadde nella notte tra il 9 e 10 novembre 2019?

Secondo la tesi che ha portato alla condanna di Corallo, i due ebbero un incontro. Una serie complessa di rilievi, permise di incentrare gran parte del processo sulla rilevazione di una traccia in particolare, che mischiava i profili genetici di Lucifora, del sangue della vittima, e Corallo. Una traccia su cui si è discusso molto tra periti e consulenti, ricavata da un campionamento “nell’anello di metallo della pilozza del bagno”. Impossibile che Corallo, come aveva sostenuto, non avesse frequentato Lucifora da almeno una quindicina di giorni prima del delitto.

Quella traccia nel lavandino, con il dilavamento dell’acqua sarebbe scomparsa ed invece era lì e, per l’accusa, era il segno che Corallo era stato l‘ultimo ad usare quel lavandino. E una super perizia affidata dalla Corte di Assise d’Appello ai Ris di Roma (in aggiunta all’eccellente lavoro fatto dal Ris di Messina) aveva rinvenuto altri due campioni – nel sifone del lavandino e nel dispenser del sapone – che portavano tracce miste del sangue di Lucifora e del dna di Corallo.  Una serie di indizi, come l’abitudine di Lucifora di comprare dolcetti che offriva ai suoi ospiti, un vassoio acquistato qualche giorno prima dell’incontro. Vassoio di dolcetti che ricompare tra le mani di Corallo che lo offre a dei colleghi il 10 novembre. Indizi, ma che la Corte d’Assise d’Appello con i suoi periti mette in fila, sentendo consulenti e non tralasciando alcun aspetto.

E poi alcune contraddizioni che emergerebbero in sei versioni dei fatti riportate da Corallo in sede di interrogatorio e un alibi non fornito. O meglio. La notte dell’omicidio Corallo prova a fornire quell’alibi ma nessuna delle persone che lui sostiene di avere visto lo confermerà . E’stato a casa? Secondo gli inquirenti, a casa avrebbe lasciato solo il telefono e, in conclusione, avrebbe adattato le versioni a quello che gli veniva chiesto. Secondo la pubblica accusa, un plausibile movente dell’omicidio risiederebbe nel campo passionale, e si sarebbe alimentato nel risentimento nei confronti di Lucifora che lo voleva abbandonare e lo irrideva davanti a terze persone. Per la Corte d’Assise d’Appello, anche se non ci fu premeditazione Corallo, per non essere localizzato, lasciò volutamente il telefono in casa e si recò da Lucifora “non proprio animano da buone intenzioni”.

Commesso il delitto con efferatezza, si ripulì e provò ad eliminare le tracce portando anche via il telefonino della vittima per ostacolare le indagini. I giudici si spingono a non escludere che sia stato lo stesso Corallo a portare via la spazzatura da casa Lucifora, lasciando intenzionalmente dei mozziconi di sigaretta che potevano contenere tracce di altre persone. Insomma, l’intenzione di costruire un delitto perfetto se non fosse per quella tenace traccia nel lavandino e quei temi di dilavamento che lo avrebbero incastrato. La Procura di Ragusa, i fratelli di Lucifora assistiti dall’avvocato Ignazio Galfo non si sono mai arresi. Entrambe le parti hanno appellato l‘assoluzione di primo grado; la rinnovazione del dibattimento aperta in Appello ha permesso di approfondire ulteriormente gli elementi a favore e contro l‘imputato. Ora Corallo è in carcere. Dovrà scontare un po’meno di 14 anni, una parte della condanna l’ha già scontata in custodia cautelare

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