ODISSEA DI UN MIGRANTE

Cu nesci arrinesci”, afferma un antico detto popolare siciliano ma, c’è stato un tempo in cui “cu niscìa” veniva considerato “sporco e stupido”.

Riuscite ad immaginare che cosa si provi nel  dire “addio” ai propri affetti, alla propria terra, alla propria casa, agli amici con cui si è cresciuti? Partire per un paese lontano,  sentirsi stranieri perché in terra straniera, dove la lingua è incomprensibile perché non si conosce? Andare via con pochissimi soldi, anzi, con nessun soldo in tasca? Chi sarebbe disposto oggi a fare una cosa del genere? Un tempo, anche noi eravamo disposti a farlo: lombardi, veneti, calabresi, campani, siciliani: italiani! Italiani, sì! Noi italiani.

Quella che vi racconterò non è una “bella storia” ma, nonostante tutto è comunque e, purtroppo, una storia vera, che finisce bene per alcuni, male per altri, e che deve essere raccontata,  raccontata e raccontata sempre, perché le generazioni future non dimentichino. E’ la storia dell’emigrazione delle nostre famiglie in America…in Belgio….in Svizzera…in Germania.

E’ una storia fatta di speranze, illusioni, inganni, di agenti d’emigrazione.

Scriveva Carlo Levi, in “Cristo si è fermato a Eboli”:  «Il Regno di Napoli è finito. Il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America, che ha per i contadini una doppia natura. È terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco danaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore e nessuno più si ricorda; ma nello stesso tempo è, senza contraddizione, il paradiso, la terra promessa del regno».
Spinti, dunque, dalla miseria, dalla fame e dalla speranza di un futuro migliore, ma vittime dell’ignoranza e dell’analfabetismo, molti emigrati italiani diventano facili prede di sfruttatori, la cui propaganda è spietata e scandalosa, tanto da promettere straordinarie ricchezze e smisurate fortune a quanti si dirigono in America, dove “le strade sono coperte d’oro e si mangia a sazietà”.

E così, a un certo punto della nostra storia, noi italiani giungemmo in America, a centinaia, migliaia, fino a quando non fummo più di quattro milioni, così che la folla di noi migranti al porto di New York provocava un  impatto emotivo sulla città, che ci considerava con pietà, ma più spesso con paura.

Ma… ve lo siete mai chiesto come arrivammo dalla Sicilia o dalla Calabria in un paese così lontano? Il viaggio via mare verso le Americhe non è mai stato una crociera per noi emigrati italiani. Abbiamo viaggiato per giorni, settimane, per un mese anche, su dei piroscafi semi demoliti che, quando le acque del mare si agitavano, facevano tremare di paura gli sfortunati passeggeri e anche per questo chiamati “vascelli della morte”.  Non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano ugualmente più di 1.000, partendo senza la certezza di arrivare a destinazione, in quella Terra promessa dalle strade d’oro. E molti, durante quella tragica navigata, si spegnevano in quei drammatici viaggi verso la speranza, perché ammassati in condizioni pietose e prive di igiene. La “tonnellata umana”, così come venivamo chiamati, se ne stava rannicchiata sulla coperta, vicino le scale, dove consumava il suo pasto: un piatto mezzo vuoto che teneva sopra le gambe e un pezzo di pane raffermo fra i piedi; mangiava quell’umile pasto come quei poveri mendicanti che si trovano ancora oggi davanti ai portoni delle chiese.

Una volta arrivati, affrontammo la povertà, la discriminazione e l’isolamento dovuti al fatto di essere in una terra straniera.

La maggior parte di noi era molto giovane quando arrivò in quel paese, come il caso di Vincenza, di appena sedici anni, che dovette lasciare la sua bella Sicilia, non per sua volontà, ma per quella della madre, rimasta vedova e con sette bocche da sfamare. Il matrimonio per procura, in quei casi, diveniva l’unica soluzione per sfuggire alla miseria che riempiva di fame le pance e, Vincenza, ne aveva la pancia piena. E fu così che accettò di sposare un americano di cui sapeva quanto bastava per poter dire Sì davanti a un rappresentante dello sposo. Il matrimonio era avvenuto  dopo che i due giovani si erano conosciuti e fidanzati solo per lettera e per fotografia. Vincenza vide di persona, per la prima volta, il suo sposo soltanto dopo essere arrivata in America. Ai poveri non è consentito scegliere l’uomo con cui condividere le gioie e i dolori della vita, sentire palpitare il cuore per amore. I poveri non si sposano per amore, ma per necessità!  E furono tante le Vincenza, Maria, Giovanna che, ancora adolescenti, contrassero matrimonio per procura con uno a loro del tutto sconosciuto. La maggior parte delle giovani donne  partì quando era già sposata, in modo che il suo onore fosse salvo, poiché la famiglia l’affidava all’uomo da sposata, e non da nubile, ma a volte, si creava anche delusione al momento dell’incontro… .

Noi italiani, giunti in America, con le lacrime agli occhi scoprimmo che non solo le strade non erano rivestite d’oro, così come ci avevano detto e come le avevamo immaginate, sognando davanti agli occhi lucidi dei nostri bambini, ma che eravamo proprio noi quelli che dovevamo rivestire quelle strade, e non con l’oro… .

E così, poveri, senza un soldo in tasca e con la testa piena di sogni infranti dalla dura realtà, gli emigrati italiani portavano l’unica ricchezza che avevano con sé: la forza delle loro braccia, che  da quel momento in poi impiegarono per svolgere i lavori più pesanti, più umili e rifiutati dagli altri, come le opere stradali e ferroviarie, le fabbriche e c’era anche chi si dedicava al piccolo commercio: tutte attività capaci di garantire un guadagno  sicuro da spedire alla famiglia rimasta in Italia e che attendeva con ansia quei soldi.

Considerati sporchi, puzzolenti e pieni di pidocchi, noi emigrati italiani imparammo presto ad adattarci, ad andare d’accordo col resto della popolazione, a parlare anche americano con l’accento siciliano o napoletano, ma non smettemmo mai di essere orgogliosi di ciò che eravamo e del luogo da dove venivamo: il Veneto, la Lombardia, la Campania, la Sicilia, in una parola: l’Italia!

E anche se la società tentava di umiliarci, poiché stranieri in terra straniera, noi continuammo a testa alta. Imparammo una seconda lingua, quando nemmeno sapevamo parlare bene l’italiano, e sia che emigrammo in America, sia che andammo in Belgio o in Germania, trovammo un lavoro, ci raccogliemmo in Associazioni e acquistammo case nostre. I Nonostante il pregiudizio, imparammo a cavarcela, ad andare avanti sostenemmo a vicenda!  Facemmo addirittura in modo di conservare il nostro stile di vita, la nostra cultura, i nostri santi che da lassù ci proteggevano, e mandammo a casa grandi quantità di denaro.

E mentre con le nostre braccia costruivamo palazzi, scuole, fabbriche, strade, il cuore ci palpitava nel petto, quando canticchiavamo una canzone della nostra amata terra, e dai nostri occhi spuntavano le lacrime per ciò che avevamo lasciato: il nostro sole, il nostro mare, le nostre montagne, i nostri campi, i nostri affetti. “Unni c’è u liettu c’è u rizziettu” sì, è vero, ma se questo “letto” fosse stato nella nostra terra dove  stavano le nostre radici, il “letto” sarebbe stato più bello, perché senza radici non ci sono alberi e senza alberi non ci sono frutti.

E questo è accaduto non solo quando eravamo in America, ma anche più tardi in Belgio, in Francia, in Svizzera, in Germania…in Germania, già, dove si erano trasferiti dopo la seconda guerra mondiale Nicola e Francesca. Il duro lavoro in fabbrica li ha distrutti, ha accorciato la loro giovinezza, li ha resi adulti prima ancora di esserlo diventati. Con le sue mani Francesca quante scarpe ha fabbricato, compiendo sempre gli stessi gesti, tutto il giorno, per ore e ore, mentre Nicola si guadagnava il pane con la fronte che grondava sudore per il troppo caldo nella fonderia.  E la sera non si vedevano nemmeno: Nicola andava in fabbrica, Francesca tornava a casa. Almeno avevano le pance piene e non più di fame. E questo è accaduto non solo in Germania, ma in molti paesi sviluppati della nostra Europa ed ora sta accadendo lungo le nostre coste, nei nostri porti da dove un tempo siamo partiti in cerca di fortuna e dove molti, più fortunati, sono ritornati per rimanervi tutta la vita, e invece altri non hanno più calpestato la nostra terra, per loro è stato un viaggio senza ritorno, ma diretto in Paradiso.

Ancora oggi quante navi, quanti porti, quanti treni pieni di tanti occhi lucidi, di teste piene di sogni, di cuori pieni di speranze, viaggiano…. viaggiano…viaggiano in cerca di un futuro migliore, di una mano amica, di un fratello che come lui sa cosa vuol  dire l’odissea di un migrante che, Renato Zilio, paragona a un seme.

 

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