NON SENSO

Deploro nettamente decisamente inequivocabilmente fermamente duramente rigorosamente indubbiamente indiscutibilmente recisamente le azioni terroristiche di Parigi.

Un mio amico su facebook ha scritto: Assurdo ciò che è accaduto ieri sera a Parigi!!!!!! Potrebbe accadere ovunque! E se ci radunassimo nelle piazze a riflettere, pregare, meditare???

Ieri sera, nella Cattedrale di San Giovanni Battista a Ragusa, il saluto al vescovo Paolo Urso che va in pensione, è cominciato con un minuto di raccoglimento per i fatti di Parigi. Io mi sono unito, convinto, agli altri. Definiamo questi atti terrorismo, barbarie, inciviltà, fanatismo, follia, assurdità. . . Mi domando e domando: come definiscono, i siriani, l’azione di un drone che piomba sulla loro testa, distrugge la loro casa e uccide i loro cari? 

Un altro mio amico ha scritto: “Pagine strapiene di foto e di testimonianze, ma nessuno che scrive di chi finanzia l’ISIS e del doppio gioco di Turchia, di Kuwait e degli Emirati, della paralisi concorrenziale tra USA e Russia per il controllo sul Medio Oriente. Tale non vedere, non sentire, non parlare delle persone ricche e ‘per bene’ che comprano armi e le regalano al loro braccio armato mi puzza di mafia, di quella globalmafia che avvolge e soffoca questo nostro mondo.”

Un altro amico ancora ha scritto: “Sento i resoconti di quanto successo a Parigi, c’è una parola che ricorre frequentemente, una parola sottolineata in diversi modi, è il centro di tutti i discorsi, è la prima parola che mi è stata detta da chi mi descriveva questi attentati, è una parola che risuona anche nelle parole del papa, il papa buono, e viene pronunciata con un tono più alto, è la parola GUERRA! Stanno cercando di abituarci a questo suono, a farla sentire necessaria e liberatrice. ATTENZIONE tutto il 900 ha vissuto di questo, ATTENZIONE giovani la guerra la fate voi non quelli seduti sugli scranni del potere, loro si riempiono solo le loro tasche. Ricacciate questa parola nella gola di chi la pronuncia e non credete a politici, giornalisti, prelati, economicistici che la pronunciano.”

Io mi limito a riportare quattro episodi che la giornalista freelance Francesca Borri racconta, dopo due anni di permanenza in Siria, nel suo libro LA GUERRA DENTRO edito da Bombiani e mi domando e domando: che anche questi episodi non siano da bollare come terrorismo, barbarie, inciviltà, fanatismo, follia. . . e  non meritino un minuto di raccoglimento?

 

Amen al-Yassin ha trentasette anni, e insieme alla moglie, la madre e undici figli, la più piccola ha cinque mesi, abita in una stalla tra capre e galline, su un ripiano barattoli di olive e spezie, un sacco di patate, pane marcio, nient’altro, il bucato steso a una catena per cani, stracci che non sapresti dire se sono una camicia, una maglia, e di che colore. La loro casa, a Kafr Kouma, è in macerie, e non hanno trovato altro. Per questa stalla, che può essere centrata da un missile in qualsiasi momento come la loro vecchia casa, pagano ogni mese 5.000 lire, contro il fitto di 4.000 che pagavano prima, ma per una casa vera. Perché in guerra, la povertà è solidarietà solo nei romanzi; nella realtà, è speculazione, è frontiere popolate di trafficanti e faccendieri d’ogni specie, si paga per tutto, qui, per un’auto fino alla Turchia, per una bottiglia di latte materno, per dormire in un pollaio. E si paga tre volte il normale. “Sto cercando una tomba – mi dice Amen – ma sono tutte occupate, ormai. E quelle rimaste, in terreni privati, sono ancora più care.”

Iyad ha trentadue anni e un’aria fragile, fa il falegname. “Il mio laboratorio è quello all’angolo”, ti dice, anche se all’angolo non c’è che un soffitto franato, un moncone di muro, e anche se adesso fa il cecchino, dorme qui, un materasso e una coperta di fianco a uno scheletro di porta.

È morto il fratello, è morto il padre, è morto il suo migliore amico, sono morti tutti, è morta sua figlia: due anni. Nel cellulare la foto del cadavere nel sangue, e adesso fa il cecchino, semplicemente questo, due ore al giorno, ogni giorno, dietro uno scudo di sacchi di sabbia, guardi nel foro da cui spara e gli elmetti degli ultimi soldati che ha centrato sono ancora lì, in mezzo alla strada.

A qualsiasi domanda, Iyad dà la stessa risposta. “Ma cosa si prova la prima volta?” e ti mostra il cadavere della figlia. “Mentre un uomo rantola, dentro il tuo mirino, cosa si pensa?” e ti mostra il cadavere della figlia. “Ma quando tutto questo finirà, cosa farai? E che Siria sarà?”, e ancora il cadavere della figlia, col sangue che cola, fino a quando ti dice: “Altro da sapere?”, infila il telefono in tasca e ricomincia a sparare.

Suad e Adlalh Ziady. Suad ha quindici giorni e gli occhi già rossi e sgualciti, è nata qui, in una tomba, in un’alba di missili che fino ad ora hanno risparmiato i cimiteri, sua madre si chiama Adlalh Ziady, ha diciannove anni, la pelle gialla, mi fissa in silenzio. 

Mentre penso cosa domandarle. . . Lei continua a fissarmi in silenzio.

Esplode un mortaio, intanto qualcuno, intanto, muore.

Mentre penso: “Cosa si prova a diventare madre in una tomba? Paura? Incertezza?” Lei continua a fissarmi, in silenzio, nient’altro.

Esplode un mortaio, intanto qualcuno, intanto, muore.

E io continuo a pensare cosa domandare: “Cos’è la cosa più urgente, qui, latte? medicine?” Adlalh mi fissa in silenzio, nient’altro. Che senso ha domandare, cosa c’è da capire, ancora, in Siria, cosa c’è da chiedere? Adlalh non parla perché giustamente non ha niente da dire.

Esco dalla tomba e i bambini mi hanno raccolto i fiori, e mi si aggrappano al braccio come fossi prezioso, come fossi qui per salvarli e invece non sanno, con i loro fiori, non sanno che siamo qui solo per l’ennesimo articolo che non insidierà nessuna coscienza, neppure la nostra. Non lo sanno, mentre mi si aggrappano al braccio, che non contano niente e nulla.

Esplode un mortaio, intanto qualcuno, intanto, muore.   

Guevara. Arriva al mattino, il velo e un filo di mascara, e parcheggia davanti al portone come andasse in ufficio. Ma è l’unica cosa che è rimasta, della sua vecchia vita: perché quello non è l’ingresso del liceo in cui insegna inglese, ma della sua postazione di cecchina, esattamente sulla linea del fronte.

Ha trentasei anni e da sei mesi un nuovo nome: Guevara. I suoi due figli, Wael e Mira, sono morti in un bombardamento aereo – avevano dieci e sette anni – e lei si è arruolata nell’Esercito Libero. «Erano così terrorizzati dalla guerra. Il sangue, le esplosioni. E io cercavo di rassicurarli, ripetevo: “vi proteggerò”. Ora sono qui per vendicarli.»

Si siede dietro la finestra di un soggiorno, alle sue spalle l’argenteria ancora intatta e due piante armai appassite, e aspetta che qualcuno incappi nel suo mirino.

«So cosa vuoi chiedermi – mi dice – se non ci penso mai, alla mia vita di prima. Sono due anni che assistete indifferenti alla carneficina di Assad. La domanda vera è un’altra. Voi che adesso mi giudicate, voi che alternativa mi avete dato?»

 

A scuola ci hanno raccontato, e sui libri sono scritte, le ragioni politiche, economiche e sociali delle guerre. Io mi domando e domando: ci sono ragioni talmente alte e importanti e nobili per cui si giustifica che delle persone vengano uccise in Egitto di ritorno dalle vacanze e a Parigi al ristorante, allo stadio, a teatro, che in Siria una bambina debba nascere dentro una tomba, che un padre e una madre debbano vedersi uccisi i loro figli e, a sua volta, diventare degli assassini?

Gli esperti ci dicono che è in atto una guerra tra i potenti del mondo – di USA, Russia e Cina, in particolare – per affermare la loro egemonia economica, militare, politica e culturale nel mondo. Io non sono esperto né ho dove attingere informazioni in tal senso e tuttavia ritengo che questa affermazione sia attendibile (anche perché da sempre i potenti si sono fatte le guerre fra di loro a scapito sempre dei deboli) e mi domando e domando: c’è connessione tra la guerra tra i potenti e le morti per bombe, per fame e per emigrazione di tanti appartenenti ai deboli della terra? È utopia sognare e sperare che i potenti, invece di fare la guerra che fa morire gli altri, si accordino per una redistribuzione più equa delle risorse della terra? Beh, sinceramente, credo la cosa impossibile. Credo proprio impossibile che i potenti facciano una cosa del genere. E allora mi domando e domando: è utopia sognare e sperare che, prima o poi, i deboli, che siamo tanti e molto di più dei potenti, riusciamo a trovare, pur restando singolarmente deboli, la capacità di unirci e diventare soggetto politico talmente potente da contrastare il potere dei potenti e affermare i nostri desideri di vita, di pace e di benessere equamente distribuito? Dice il poeta, Ignazio Buttitta, “non abbassare gli occhi perché non è vero mai che sei diverso da me che stendo le braccia e ti chiamo fratello e ti voglio amico a tavola con me, uno non fa numero siamo nati per cantare insieme e non per lasciare eredità di lacrime e repetio di lamenti”. Non basta chiamare gli altri fratelli se poi noi si va a mangiare e gli altri restano a pancia vuota.

Due riflessioni in appendice. Prima. . . . che delle persone vengano uccise di ritorno dalle vacanze, al ristorante, allo stadio, a teatro. . . cioè nei luoghi di svago. Può avere un senso? Può significare: “Voi avete da divertirvi mentre noi moriamo di fame!”? Una bella motivazione mediatica per gli occhi degli arabi poveri tra cui reclutare giovani kamikaze.

Seconda. Il cosiddetto fanatismo folle ha colpito gli americani, i russi e gli europei. E i cinesi? Perché non i cinesi? Cosa dicono i cinesi? Da intellettuale ruspante quale sono, non credo che i potenti cinesi siano dietro a questi atti, piuttosto se ne stiano a guardare. Sanno di essere potenti, più potenti dei colleghi americani, europei e russi, e stanno a guardare come, americani e russi, provocati dal fanatismo folle, si dissanguano con queste guerre bombardate per poi risultare gli unici vincitori. Come è successo nel XX secolo in cui gli stati europei si sono dissanguati con le due guerre mondiali e gli USA sono risultati gli unici vincitori. Ritengo più probabile che dietro al fanatismo folle ci siano i potenti arabi, i quali, avendo capito che l’asse del potere si sposta in Cina, si prestano, strumentalizzando la povertà dei loro popoli, a provocare, col terrorismo, i colleghi americani e russi per poi presentare il conto ai colleghi cinesi e salire sul loro carro. Mi domando e domando: nessuno dei potenti americani e russi si rende conto della provocazione? che il guadagno immediato li accechi? possibile che sia solo io a fare questa riflessione? la pazzia e la stupidità albergano in me o in loro?

Rinvio i lettori ai miei articoli “11 settembre: onoriamo i morti, imparando la lezione” e “Armaioli e panettieri” entrambi pubblicati sul n. 64/2010 “Rivoluzione” della rivista online www.operaincerta.it.

Ragusa, 14 novembre 2015                                                          

Ciccio Schembari

Articolo pubblicato sul n. 123/2015 “Nonsense” della rivista on line www.operaincerta.it

 

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