L’ULTIMO RAPPORTO OCSE CERTIFICA CHE A PAGARE LA CRISI SONO SOPRATTUTTO I GIOVANI

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini…”. Questo recita il terzo articolo, secondo comma della nostra Costituzione. E non è un caso se quest’articolo è stato previsto proprio tra i primi del dettame costituzionale. Se, negli anni passati, il concetto appariva quantomeno ideale o non razionalmente perseguibile, negli anni in qui viviamo, con una disoccupazione giovanile stabile al 30% e punte del 50% nelle regioni del sud, in cui il sistema educativo ha generato per lungo tempo professionalità poco appetibili per il sistema delle imprese, in un’epoca in cui il posto fisso è diventato un sogno sempre più difficile da realizzare e ci si trova sempre più spesso davanti a “momenti di lavoro” alternati a “momenti di non lavoro”, vale la pena riflettere su possibili soluzioni che permettano di ampliare la platea di coloro che usufruiscono del nostro sistema (antiquato) di ammortizzatori sociali. In Italia, da qualche tempo, entrano ed escono dall’agenda politica tentativi e proposte che portino alla realizzazione di meccanismi di flexsecurity.  Oltre la frontiera, dicevamo prima, ad attendere i giovani non c’è il lavoro tradizionale, ma ci sono i “lavori” e quindi il passaggio progressivo da un lavoro a un altro con il rischio probabile di passare attraverso fasi d’inoccupazione. Nasce quindi l’esigenza di una seria riforma degli ammortizzatori sociali che tuteli anche i lavoratori più esposti a questo fenomeno, in larga parte giovani.

La flexsecurity non è altro che una formula idonea a garantire, tramite interventi di formazione mirati o di riconversione professionale, il passaggio non traumatico da un lavoro ad un altro nelle fasi di  provvisoria inoccupazione,  assicurando delle forme di garanzia del reddito per il periodo durante il quale non si lavora. Nel nostro paese si sono già sperimentate alcune forme di sostegno al reddito attraverso la costituzione del cosiddetto “Reddito di cittadinanza”. Si tratta di una misura di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, volta al superamento delle condizioni di difficoltà degli aventi diritto e alla promozione di percorsi di inclusione sociale attraverso fasi di formazione  e reinserimento nel mondo lavorativo. Il sostegno al reddito di solito ha una durata biennale ed è rivolto a individui che non raggiungano la soglia minima di 5000 euro annui. Ma la cosa interessante è che a chiederci queste forme di compensazione “sociale” è soprattutto la Comunità Europea. Fatta eccezione per Italia e Grecia, queste forme di sostegno sono in buona sostanza presenti, con regole e norme diverse, presso tutti i rimanenti paesi europei. Un’interessante sperimentazione del “Reddito di cittadinanza” in Italia è stata attuata nella regione Friuli – Venezia Giulia. Qui si è evidenziato come tra i richiedenti non vi siano solo anziani, disoccupati e stranieri ma anche i cosiddetti working poor, cioè quelle persone che, pur lavorando, non riescono ad avere un reddito annuo al di sopra di quella che viene indicata come soglia di povertà. Di solito, in Italia, si sono fatti interventi di sostegno al reddito dando per scontato che l’essere all’interno del mercato del lavoro potesse consentire di avere un reddito dignitoso. Oggi però le trasformazioni del mercato del lavoro, con l’aumento del tasso di precarietà, hanno evidenziato che ci sono sempre più fasce interne al mercato del lavoro che scivolano al di sotto della soglia di povertà. Sono persone che lavorano a intermittenza e conseguentemente sono soggetti a una intermittenza di reddito non riuscendo ad entrare nelle strutture degli ammortizzatori sociali esistenti basati ancora sulla figura del lavoratore subordinato a tempo indeterminato.

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