Lo stato non si può vendicare …di Luisa Montù

“Pena di morte per lo zio animale.” Questo lo striscione comparso davanti alla casa di Sarah Scazzi, portatovi dalla mamma di un suo compagno di scuola. Certo, dopo il verificarsi di un’empietà come questa, è naturale che sorga in noi il desiderio di cancellare dalla faccia della terra chi l’ha commessa. E’ un bisogno di vendetta che fa parte della natura umana, comprensibile e giustificabile. Ma stiamo parlando di natura umana, quindi, se un familiare di Sarah si facesse giustizia con le proprie mani, sarebbe normale che tutti noi si auspicasse che la giuria chiamata a giudicarlo usasse nei suoi confronti la massima clemenza possibile e ci si indignasse nel caso in cui questo non accadesse. E’ un sentimento umano, ma è, appunto, un sentimento.

Auspicare invece che lo Stato reintroduca nella sua legislazione la pena di morte è cosa completamente diversa. Lo Stato è un ente astratto, non può avere sentimenti, quindi non può provare quello della vendetta. Lo Stato nei confronti di chi commette un reato si trova davanti a due possibilità: quella di recuperare il reo, nel caso in cui ciò sia possibile, quella di metterlo nelle condizioni di non nuocere più negli altri casi. Certo, sopprimerlo risolverebbe molti problemi, ma giustificherebbe uno Stato vendicativo, quindi non più ente astratto, bensì un gruppo di uomini che decidono a loro piacimento dei loro simili: da qui all’eccesso di togliere di mezzo fisicamente le persone sgradite il passo non sarebbe poi molto lungo.

Non solo, ma si finirebbe per non voler distinguere più la differenza fra chi delinque per pura malvagità e chi lo fa per malattia mentale, sempreché la “pura malvagità” non sia anch’essa una grave forma di malattia mentale che la scienza un giorno potrebbe individuare e magari anche curare.

E’ ovvio che quando accadono fatti raccapriccianti come l’omicidio della piccola Sarah l’istinto ci porta a dimenticare ogni ragionamento sensato e a farci trasportare dal sentimento della vendetta, a desiderare la morte del colpevole, a chiedere che sia lo Stato a legalizzare quella morte. Riflettiamo però che questo vuol dire che stiamo chiedendo il ritorno alla legge del taglione, quindi il ritorno a una concezione primitiva sia della legge che dello Stato. Non solo, ma la vita di un imputato potrebbe dipendere dalla bravura dell’avvocato che lo difende, così gli unici condannati a morte sarebbero coloro che non possono permettersi di assumere un principe del foro: ancora una volta, la mannaia ricadrebbe sui più poveri.

E poi la pena di morte è davvero più punitiva dell’ergastolo? Questo forse è il punto sul quale si dovrebbe porre l’attenzione: la durata della condanna. Se una persona è così pericolosa per il prossimo da dover essere messa in condizione di non nuocere, per quale ragione accade che, dopo aver scontato solo una parte della pena alla quale è stata condannata, sia restituita a quella società per la quale rappresenta un pericolo? E’ successo e vorremmo che non succedesse mai più.

Ci rendiamo conto che le carceri sono strapiene, ci rendiamo conto che il loro mantenimento rappresenta un costo non indifferente per lo Stato, quindi per noi, ma siamo anche tutti consapevoli che ci sono strutture carcerarie iniziate e mai finite che dovrebbero essere completate e rese operative (per la cui inutile costruzione sono stati spesi soldi nostri che avrebbero potuto essere impiegati proficuamente e non sprecati), così come siamo consapevoli del peso economico che grava su noi cittadini per gli esagerati emolumenti forniti a una classe politica che ben poco fa per meritarseli, una classe politica che comprende anche coloro che, non sentendosi italiani, ci insultano con le parole e con i comportamenti ma non disdegnano di usarci per il proprio benessere. Dovremmo lasciar loro anche la potestà di decidere della nostra vita?

(da La Pagina del 12/10/2010)

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