L’ITALIA COME ERRORE DA PREFIGGERSI

È probabile che si dibatta di tanto, troppo e troppo spesso!, ben poche parole invece sono spese in merito al progressivo fallimento ideale dello Stato Unitario Italiano, da seguire in correlazione al disfacimento della civiltà umanistica europea. Intendiamoci, non sto facendo la fessa premessa a un discorso revisionista, ché questo è argomento destruens di cui si è abusato negli anni scorsi, senza mai porre il punto al fine di avviare urgentemente una fase costruens. Voglio andare a parare altrove, e precisamente nei circondari di quegli originari luoghi ideologici dell’animo di un popolo, oscuri e misteriosi, dai quali più volte si attinge per adornarne lo spirito nazionale (attività interpretativa pericolosissima, del resto, e quindi da affrontare con enorme cautela). Non dico che sia un argomento nuovo, ma che sostanzialmente sia poco accattivante in tempi di comunicazione veloce, e di conseguenza ancor meno adottato dalle conventicole della discussione culturale. L’assunto iniziale da cui prenderò le mosse è questo: non esiste una identità nazionale italiana, per fortuna!, ma piuttosto una cultura identitaria, presso cui si dovrebbero misurare preventivamente le intenzionali attività del buon cittadino; questa cultura identitaria, appartenente individualmente ad ognuno di noi, come italiano, ma anche e soprattutto come europeo, e persino come portatore inconscio, è quella che culmina nell’identificazione del termine Umanesimo.

L’Iliade è forse il testo base da cui far partire le radici di questa cultura. Si rappresenta nel poema lo scontro dell’individuo contro l’individuo, solo come finzione scenica individuandolo nei raggruppamenti Achei e Troiani. Quello che voglio dire è che il lettore ingenuo (nel senso più naturale e positivo del termine, si badi bene) si trova a essere sempre indeciso su chi patteggiare. Esso già sente quella pietas che poi è causa, in tempi successivi, della propensione verso i troiani (tuttavia Virgilio non fa che apportare nuovi antagonisti al “bene” presunto, nel corso della sua Eneide, col risultato che si finirà per provare simpatia nei confronti di Didone e di Turno). Se è possibile, azzardo a rilevare che, non solo non vi è alcuna contrapposizione reale tra “bene” e “male”, ma occorre ipotizzare che il senso finale di questa interpretazione supera in chiarezza persino l’esistenziale yin/yang della saggezza orientale (per quel che un occidentale è in grado di comprendere, ovviamente, ossia nei limiti geo-culturali). Nei testi classici del nostro pensiero occidentale, perlomeno quelli del periodo ellenico e latino, il bianco può divenire nero a seconda del punto di vista. Una posizione machiavellica, in qualche modo, e tale ultimo riferimento mi aiuta a spostare l’attenzione più avanti nei secoli, sino all’Orlando Furioso. Sono testi, questi accennati, che narrano di guerre ma che non incitano allo scontro, contrariamente alle apparenze. Nella nostra cultura umanistica, non c’è bianco o nero da preferire, ma compartecipazione. Uomini che si danno da fare, talvolta facendo seguire azioni senza alcun senso a idee solo ipotizzabili dall’osservatore esterno. Mi spiego meglio: la maestria dell’Ariosto, la grande novità rispetto i testi omerici per esempio, sta soprattutto nella mancanza di introspezione psicologica. I paladini, i mori, non hanno caratteri, è risaputo, semmai un’idea il lettore se la fa dal costruirsi della scena. È il personaggio che esiste solo nel suo relazionarsi, per utilizzare i termini della critica marxiana. Ora il lettore meno ingenuo non patteggerà più per alcuno, ma nel bene e nel male avrà modo di godersi lo spettacolo che gli si para dinanzi. D’altro canto la tradizione siciliana dei pupi, nella sua popolarizzazione funzionale al lettore ingenuo, conduceva lo spettatore a “tifare” anche per i mori, e contro i luminosi cristiani (io stesso, come lettore ingenuo, ho sempre preferito Ferraù). Il lettore esperiente, poi, finisce per deridere gli sforzi vani di questi eroi che si danno battaglia per una donna, o per una spada, dimenticando Parigi e la difesa della cristianità. Ritornerà indietro il lettore, dalla follia di Orlando sino alla furia distruttiva e vana di Achille che uccide dileggiando il malcapitato Ettore (quasi un morto accidentale, al pari dell’Elpenore odissiaco). Sono cose che capitano, si dirà con un po’ di ironia, e con la dovuta pietas, specie nei confronti di tutte le donne abbandonate che si è usi abbandonare in Cartagine. Sono proprio cose che capitano, ogni giorno, in effetti!, ed è così che il lettore diviene maturo comprendendo che quello che sembra solo un gioco della follia, di erasmiana memoria, non è che la vita stessa. Noi stessi siamo quegli uomini che si affannano l’uno contro l’altro, senza alcun motivo.

Ora, alla conseguente idealizzazione cosmica,  panteistica e rasserenante, si giungeva con facilità nelle età post-arcadiche, risolutamente in ogni caso prima della summa divisio operata dall’etica cristiana funzionale alla partizione delle società ultraterrene, separazione netta nella visione veterotestamentaria; ancora si poteva giungere alla pacificazione interiore pure in quei secoli di rifondazione manichea, e su questa medesima base culturale – essenzialmente laica – tendente alla complessità, si sarebbe potuto immaginare di fondare l’identità generale europea. È probabile che il manicheismo armato, anche di moneta sonante, quello di stampo statunitense, abbia in qualche maniera dato il colpo di grazia al sistema culturale cui era giunto l’uomo occidentale, pur con grande difficoltà, sino al millecinquecento circa. È altamente probabile che i processi che agiscono nel subconscio operino tutt’ora al fine di costringerci a questo principio dello scontro continuo di cui appare forgiata la società contemporanea. Non facciamo che tifare, per di più non secondo il nostro libero arbitrio, come farebbe il lettore ingenuo, ma seguendo le indicazioni di cattivi maestri esogeni.

Per fortuna non siamo più in balia del buon principe machiavelliano (anche se in qualche modo era un governante che si occupava della buona salute del suo principato), né lo stato è riuscito a concretizzare l’incarnazione migliore nel suo popolo (il socialismo, mi piace come processo in divenire, ma al momento soffre i dovuti ripensamenti a causa dei tentativi falliti), tuttavia ora la discrezione della scelta è assegnata – come finzione – a un mercato globale che in realtà è manovrato da pochi principi incapaci di pensare al circostante oltre lo stesso profittevole domani. Non sono uscito ancora fuori tema, voglio lasciar trasparire questa nuova forma dissennata di relativizzazione, avulsa del tutto dal libero arbitrio della ragione. Nessun ragionamento aprioristico è più affrontato, perché nella smania di fare, esiste solo lo scontro tra buoni o cattivi. Ed è facile convincersi di cose che non sono, come il tizio che si sente dire che al bar tale fanno un pessimo caffè. Pur non avendolo mai provato si fiderà di almeno tre ripetizioni, e magari non prenderà mai in considerazione che le dicerie possono essere frutto di simpatie, antipatie, interessi. Dunque non andrà a prendere quel caffè. La cosa risulterà complicata dall’eventualità incidentale di nuove tre asserzioni, questa volta in positivo, da parte di tre altri fruitori gratificati dal caffè indiziato. Il tizio resterà confuso. Provare o non provare? Forse il timore di “perdere”  un qualche cosa (perdere qualcosa, come opzione, grava molto più di un eventuale aleatorio guadagno, nelle decisioni dei moderati) gli farà sopire ogni ardire. L’indecisione dunque lo lascerà indifeso e inattivo, in mezzo alle tifoserie. Un po’ come quando a settimane alterne i giornali e le tv ci comunicano l’uscita dalla crisi, o il peggioramento delle condizioni economiche. La crisi, quindi, quella vera!, non è quella che comincia nel 2008, ma da appena alcuni secoli prima, ed è una crisi di tipo culturale. Benigni voleva fermare le caravelle, e magari è risoluzione eccessiva, alla fine i beatles anche se inglesi furono influenzati dalla musica afroamericana, però la nostra cultura umanistica la si poteva difendere un po’ di più. Una difesa senza preconcetti, s’intende, per non decadere ancora nella mera tifoseria e nella vanagloria di chi “la mia squadra gioca sempre bene anche quando gioca male”, si poteva cioè tentare di fondare il cittadino italiano su una ideologia del non scontro, della razionalizzazione dialettica, nella serenità virile di chi ha capito che si sbaglia in continuazione anche senza volerlo. Sarebbe ancora un buon compromesso.

Gaetano Celestre

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