LE PAROLE DEGLI IBLEI

Giaceva nel cassetto, più volte rimandato, un appunto su un pezzo da dedicare ad un libretto di recente pubblicazione, presentato qualche mese fa, sui proverbi e i detti ragusani.

L’incertezza che ha accompagnato queste settimane nasceva da un elemento di curiosità: come si fa a collocare un libro sulle Parole degli iblei – tale è il titolo del volumetto – dentro una rubrica che si prefigge di rinnovare costantemente l’appello a praticare un “pensiero traverso”, critico, contro, quando serve anche polemico?

Poi mi è parso chiaro: che può esserci di più traverso oggi di un pensiero che taglia le cose, la realtà, con il cinismo, il realismo, l’asciuttezza, il disincanto come quello contenuto nei proverbi e nei modi di dire della tradizione orale, che solo a guardare con occhi distratti e superficiali possono sembrare omologati e ossequiosi delle regole del pensiero ufficiale.

In realtà, l’anima popolare che respira attraverso questi  tòpoi  della narrazione che un popolo fa di se stesso si enuncia soprattutto nella sua forma di discorso monco, sapientemente interrotto, sospeso, saturo di “non detti” che si frullano dentro un contenitore spoglio, secco, tagliente. Nessun orpello, nessuna concessione alle certezze facili. Come giudicare altrimenti un’espressione così sapida e insieme “aleatoria”, centrata e insieme volatile, come

“ummira ‘i ciaramira, pinnula ri cucina, acqua caura e stamu ô virri”

con quel delizioso aprire sulla potenza del caso, nelle faccende degli umani.

Il libretto nasce da un’idea di quell’archivio vivente della memoria che è Saro Di Stefano, che ne è anche curatore,  e raccoglie testi di diversi autori che con diverso taglio hanno partecipato a questa festa del linguaggio. Non li citerò tutti e dunque gli altri non me ne vogliano: mi limiterò ad alcune (che considero) perle.

Carmelo Arezzo aggredisce il detto “’A maravigghia è comu campamu”  con un racconto dei suoi;  Francesco Raniolo tenta la costruzione di una morfologia dei proverbi  à la Propp a partire da “’a ragghiuni è rê scecchi”.

Ma è nel mini-saggio del curatore, intitolato “memoria praeteritorum honorum”, che il godimento raggiunge il suo zenith: la ragusanità, i suoi caratteri distintivi, la sua cifra antropologica, argomentati mediante un continuo slittamento linguistico dal piano del discorso sulle massime popolari al piano in cui sono le massime a parlare di se stesse mediante se stesse. Una destrezza che può venire solo dal praticare con familiarità i luoghi della memoria, qualità assai riconosciuta a Saro Di Stefano.

La preoccupazione espressa da Antonio La Monica nella prefazione al volume è condivisibile: che ne sarà di questo patrimonio se non lo spendiamo?

 

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