LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DI CONDANNA SI VERONICA PANARELLO

A distanza di poco meno di 4 mesi dalla sentenza (il Gup aveva chiesto il mese scorso una proroga sui 90 giorni previsti) stamani è stata deposita la motivazionè dal Gup Andrea Reale, Atto molto articolato, composto da 190 pagine che motiva le sentenza di condanna a 30 anni di reclusione ai danni di Veronica Panarello per l’uccisione  del figlio Loris, di 8 anni. Contestualmente  il giudice ha inviato gli atti alla Procura per il reato ipotizzato di calunnia ai danni della donna nei confronti del suocero Andrea Stival, difeso dall’ avvocato Francesco Biazzo, che la donna aveva  chiamato in correità.  Il giudice, infatti lo ha dichiarato estraneo ai fatti.  “Veronica Panarello non presenta disturbi dell’area psicotica, della coscienza o delle percezioni”, scrive il Gup, richiamando la perizia psichiatrica agli atti del processo. Secondo uno dei periti “il disturbo narcisistico e istrionico” della donna sarebbero correlati a quelli che si attribuiscono a “psicopatici bisognosi di considerazione. Scrive il giudice di Ragusa che la perizia è “un’ulteriore indizio a carico” dell’imputata, “emergendo una personalità in conflitto con sé e con i propri familiari, immatura sotto il profilo genitoriale, menzognera e fortemente istrionica, egocentrica, manipolatrice, desiderosa di catturare le attenzioni di chi gli sta vicino e di porsi al centro di tutto ciò che la circonda a causa anche delle carenze affettive delle quali aveva sicuramente sofferto da adolescente”.Il giudice cita “il figlicido per vendetta”, quello che “successivamente è stato ribattezzato come
‘sindrome di Medea’”, ultimamente indicato dagli esperti come “figlicido motivato da rivalsa” che “colpisce il suocero, oltre che il marito
figlio, in una spirale di cieca distruzione della idea di famiglia e dei valori che essa stessa incarna”.Secondo il Gup la donna avrebbe “trasferito nel figlio e nel rapporto con lui le frustrazioni e l’odio patito nella sua famiglia d’origine ed ha riversato le incomprensioni avute con le proprie inconsistenti figure genitoriali”. Il simbolo della genitorialità e della vita si sarebbe trasformato, scrive il giudice, in un “crescendo di inesorabile forza distruttiva, simbolo di oppressione e di morte, di distruzione di parte di sé, del proprio sangue, e, in conclusione, si sé stessa e del suo ruolo di madre e di moglie”.

 

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