La retorica sul “tutti gli uomini palpeggiano le donne”

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola
“Houston! … qui Ragusa.”

Profonda eco ha avuto nei media e nel web l’odiosa molestia sessuale subìta pubblicamente, fuori dallo stadio, in diretta tv, dalla giornalista Greta Beccaglia (alla quale va la solidarietà di questa rubrica).A riguardo, l’articolo di Ilaria D’Amico (alla quale va la stima di questa rubrica) ha trovato grande risonanza e consenso anche nelle molteplici condivisioni sui social. Scrive del “molestatore” (al quale va il biasimo di questa rubrica):”… il palpeggiatore nostrano non si nasconde, cammina, punta al sedere e prosegue soddisfatto e senza fretta nel suo percorso. Tutto questo può succedere perché lui sa che quel gesto non porta con sé una condanna profonda di chi lo circonda e inoltre gode dell’immunità fornita da tutta la comunità maschile …”


Ora. Io non ero nella testa di quel palpeggiatore (ho di meglio da fare nella vita). Non posso sapere se credeva di godere della “immunità fornita da tutta la comunità maschile”. E soprattutto, non posso, non devo e non voglio rispondere, da uomo, delle presunte e rutilanti seghe mentali di un individuo di sesso maschile. So per certo che, se ha agito così per queste ragioni (e io assai ne dubito), si è clamorosamente sbagliato. Come, io credo, si sbaglino ora la dottoressa D’Amico e i tantissimi che ne riflettono legittimamente il pensiero.Infatti la vicenda non è andata per nulla in questo modo nella realtà. I social sono pieni di commenti sia maschili che femminili di profonda e sentita riprovazione. E il giudizio e le pene (Daspo a parte) saranno ulteriormente e verosimilmente definite presto a livello legale nelle sedi deputate e competenti (anche da giudici maschi). Come è giusto che sia.È a tal punto vero tutto ciò, che il “tifoso” in questione si è dovuto scusare pubblicamente e, dopo essere stato inevitabilmente subissato di “asperrime critiche” (persino da “branchi di maschietti alfa”), ha cercato una conciliazione per il tramite di un legale, plausibilmente nel tentativo di scongiurare il peggio. Per lui.


Nessuna immunità, dottoressa D’Amico. Si sbaglia. Io e milioni di italiani non siamo in nessun modo complici di quell’uomo. E sarebbe fallimentare deresponsabilizzare l’individuo adombrando connivenze per intero di una fantomatica comunità. L’individuo risponde di quel suo atto. E scegliere di non mirare al singolo atto e al singolo attore, sul piano della comunicazione, non è neppure utile alla causa. Le generalizzazioni in forma di sentenza sono semplificazioni rozze, sociologismi alla luce obliqua dei quali alla fine “tutti siamo colpevoli e nessuno è davvero colpevole”. Che ogni uomo (ogni persona) risponda invece del suo gesto! In ossequio al sacro e dimenticato principio della responsabilità individuale.Abbiamo bisogno di recuperare l’etica della psicologia individuale. 
Quella della dottoressa D’Amico (e della platea oceanica dei suoi sostenitori) è una lettura netta, una chiosa radicale che assomiglia ad una sentenza universale:”Dico tutta la comunità maschile perché oggi, e da oggi, non ho più voglia di fare dei distinguo, di dire che ci sono uomini diversi, che sentono come noi donne il senso di quella violenza… Non parlo della solidarietà pelosa, ostentata nelle campagne antiviolenza sulle donne. La vostra reale indifferenza è l’incubatore stesso della violenza…” 


Questi uomini.Tutti indifferenti. Tutti insensibili. Tutti complici. Tutti retorici. Tutti pelosi.No, lasciatemi dire. La cifra di questa riflessione è avvilente. Ha la stessa verticalità di un luogo comune spalmato su un toast di arsenico inutile. E affogato nella melassa. Appiccicaticcia e inutile pure quella.Sposa una retorica a tratti “pelosa” e acchiappalike che, a mio avviso, non aiuta le donne e gli uomini. Questi ultimi pronti a urlare in molti profili quanto si vergognino di essere uomini. Perché il “mood” che sprigiona fa molto figo. Diciamolo.Ma dinanzi a quel gesto subumano, io non mi vergogno affatto. Semmai, mi arrabbio, mi dissocio. Prendo le distanze (ben più del metro di distanza-covid).
Forse il palpeggiatore senza mascherina può essere rappresentativo di una piccola fetta dei tifosi di uno stadio di “calcio”. Concedo. Ma il “calcio” non è il Mondo. Non è il mondo di tutti.E poi, l’idea che gli uomini non possano mai capire, empatizzando, le vittime di molestia è scientificamente priva di fondamento. Chi subisce una precisa violenza psicologica (una donna, in questo caso) è sempre e comunque nella condizione ideale per cogliere la sofferenza di altre vittime (altre donne)? Non necessariamente. Anzi, spesso il giusto distacco di chi non è travolto emotivamente e intimamente può rappresentare un’arma lucida in più.La soggettività di ogni vittima (una donna) autorizza le generalizzazioni (sulle esperienze simili di altre donne)? Non sempre. Ogni persona vive la sua storia esclusiva in un modo unico.Chi (l’uomo) non subisce la “stessa” violenza non è in grado comunque di accogliere, ascoltare, sentire e rispettare la sofferenza altrui (femminile)? Nulla vieta che (l’uomo) possa comprendere anche se non ha subìto la stessa violenza.Insomma, le risposte non sono scontate. Quindi, non mi accontenterò mai dei luoghi comuni sui lupi cattivi nel bosco. Siamo adulti (pelosi). Abbiamo bisogno di analisi più articolate. Luci meno ovvie nel leggere la favola nera di questo tempo.

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