LA PUBBLICITA’ TELEVISIVA. OGNI GIORNO PIU’ LONTANA DAL BUON GUSTO

Da qualche settimana gira su tutti i canali televisivi una pubblicità. Uno spot televisivo che pubblicizza la nuova Twingo, automobile ormai storica della casa francese Renault.

All’epoca, al momento della sua prima edizione, la utilitaria della casa francese ebbe un notevole successo: la sua forma era particolarissima, erano gli anni novanta e le sue rotondità vennero molto apprezzate. Era una automobile nuova, diversa, come sovente capita di fare ai designers della fabbrica automobilistica fondata nel secolo scorso dal signor Renault. Questa nuova è invece una automobilina normalissima, come tante altre, tantissime. Le forme tutto sono tranne che originali, e non si distingue a metterla a confronto con pari classe della Toyota, della Citroen, della Volkswagen, della Fiat.

Ma tutto questo a me non interessa: io compro, ogni dieci anni, una macchina usata per scarsa disponibilità di denaro e per oggettiva scarsa considerazione del mezzo meccanico visto come cosa che serva ad altro oltre che a trasportarmi. Come che sia, dicevamo che da settimane la nuova Twingo viene proposta al pubblico televisivo dei consumatori con il seguente spot: si vede una strada cittadina alberata e di un quartiere che si intuisce elegante, di una civilissima città europea. Appare sul video una giovane, vestita come tutte le ragazze tra i quattordici e i venticinque anni: giubbino alto e lucido, jeans a vita bassa e zainetto. A quel punto arriva la macchina della Renault, a bassa velocità (messaggio studiato dai creativi: “noi andiamo piano e sicuri, rispettiamo le regole della strada e della buona educazione”, e questo mette di buon umore il telespettatore, tranne l’esaurito che ha la macchina in perenne sgommata, che comunque non interessa alla Renault perché non comprerà mai una Twingo), si accosta e si ferma. Ne sale la ragazza della inquadratura precedente che saluta la signora alla guida, immaginiamo la madre, seppure l’inquadratura dura un secondo. A quel punto vediamo bene in faccia la ragazza: carina, non bella ma nemmeno brutta. Mette la cintura di sicurezza (secondo messaggio positivo dei creatori dello spot) e per prendere qualcosa nello zainetto si abbassa. Gli occhi della madre vanno alla parte bassa della schiena della giovane (che come tutte le giovani d’oggi pare essere totalmente refrattaria al freddo, e indossa pantaloni bassi che la tengono perennemente con la schiena di fuori, e questa generazione vorrò incontrarla tra trenta anni, nelle sale d’aspetto di ortopedici e fisioterapisti). La donna, ancora inquadrata di spalle, non può non notare un piccolo ma evidente tatuaggio sulla schiena della figlia. Scatta il rimprovero: “ma cos’è quel tatuaggio!”. E la ragazza, ovviamente, arrossisce e farfuglia qualcosa per giustificare quel simbolo tribale monocolore e di cinque centimetri di diametro. Ma la madre, a quel punto la vediamo (quarantenne, bellissima, sensualissima, cento volte superiore alla figlia), non si ferma. E parte l’inevitabile cazziatone: “quello è un tatuaggio? Ma questo è un vero tatuaggio!”. E quindi si piega in avanti, verso lo sterzo, si abbassa quel tanto i suoi pantaloni e mostra sul fondo schiena un enorme tatuaggio multicolore. Le due si guardano e scoppiano a ridere, finalmente amiche, finalmente unite, finalmente uguali nonostante le generazioni. Unite da un tatuaggio. L’inquadratura torna all’esterno e si vede la Twingo che piano riparte e poi le solite informazioni utili a chi volesse comprarla.

 

 

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