La psicologia di chi non vota e lascia decidere gli altri 

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Congratuliamoci. È record. Un successo storico. L’astensione più alta di sempre. Più di 16,5 milioni di italiani non hanno votato (circa il 37% degli aventi diritto). E in Sicilia peggio: circa il 43% non si è recato alle urne (pioveva). Insomma, ha stravinto.
Il partitone del non voto (o di chi ha consegnato scheda bianca o ha preferito indicare “Rocco Siffredi”). Il campo largo dunque esiste. La politica infine è riuscita a crearlo il famigerato campo largo (anzi larghissimo): il deserto degli astenuti.
Mai così male. Adesso è lecito parlare di una patologia del sistema. Ma esiste un vaccino?
Cosa c’è dietro il fenomeno?

Sono dell’idea che bisogna riconoscere la legittimità del non voto, rispettandolo come diritto di ogni cittadino. E però bisogna comprenderlo, analizzarlo e tentare di elaborare e superare l’incongruenza che sovente serba nel suo seno: chi non sceglie, lascia che siano gli altri a scegliere al suo posto. Chi protesta, consegna la vittoria proprio ai destinatari della sua protesta. Chi tra le opzioni non punta al “male minore” (ai suoi occhi), dovrà comunque fare i conti con il “male maggiore” (ai suoi occhi). E le lamentazioni ex post rischiano di apparire sterili e indizi di un atteggiamento passivo e vanamente autoreferenziale. E qualora l’astensione volesse riflettere un voto di protesta, è bene sapere che ai candidati non preoccupa affatto la protesta, interessa l’elezione (a prescindere dal numero assoluto dei votanti reali).

Il voto è una delle maggiori conquiste delle democrazie libere e moderne. Il voto è protetto dalla nostra Costituzione, è un diritto inviolabile e al tempo stesso un dovere civico. Nondimeno, la crescita dei non pervenuti è davvero preoccupante. Il tema dell’astensionismo riempie, a parole, il dibattito politico. È uno di quei tanti problemi di cui la politica parla e non risolve. Anzi, al contrario … Elezione dopo elezione, la partecipazione cala e precipita ineluttabilmente e nettamente.
Nel nostro Paese votare non è obbligatorio. Ma l’astensionismo è in crescita in molti Paesi europei, in un trend che risulta evidente anche laddove votare è obbligatorio.

Diciamolo. Alcuni fattori non aiutano, non invogliano, non rappresentano un sontuoso invito alla partecipazione elettorale. Per cominciare, l’incredibile somiglianza tra le idee e le proposte e le promesse dei candidati appartenenti alle diverse coalizioni, alla luce della quale la vittoria di uno o dell’altro non avrebbe un impatto visibile sulla vita dei cittadini. E a seguire, la crisi dei partiti, la sfiducia nei confronti delle istituzioni e nelle compagini “storiche”, che da tempo non riescono a ispirare e mobilitare gli elettori sino alle urne. Sopravvive a stento la tendenza a partecipare solo ad alcune tornate elettorali ritenute misteriosamente più importanti.
In una nazione che nella storia ha registrato un tasso di partecipazione dignitosamente alto, il crollo dell’affluenza si è verificato dopo lo scandalo “Tangentopoli” (e la fine della “Prima Repubblica”).
In un’equazione sulfurea e drammatica: “Se il politico è inutile, il mio voto è inutile.” O ancora: “Se alla fine, le facce, gira e rigira, sono sempre le stesse, che senso ha sfogliare il catalogo?” E vai col valzer: “Se non è onesto e pensa solo ai suoi interessi, perché devo regalargli il mio voto?”
I giovani poi sono tagliati fuori o perché incolpevolmente impreparati e ignoranti in materia o perché il futuro non è mai un tema del presente della politica. O per entrambe le ragioni. E per la terza: i ragazzi sono prigionieri di un incubo horror, nel quale talora si vedono circondati e oppressi da dinosauri e da zombie (i loro genitori e i loro nonni) che votano secondo ideologie e categorie del Novecento, come tifoserie che, solo per partito preso, votano furiosamente contro una “sigla” e non a favore di un progetto del 2023. Che guardi magari al 2053.

Come dice Pagnoncelli, i consensi elettorali sono volatili. Siamo un Paese che attraversa fasi di innamoramento e disaffezione. E le maggioranze vanno e vengono rapidamente. L’io vince sul noi. Ora prevalgono le convenienze o istanze personali, spesso ammantate di valori. Il rapporto con la politica non riguarda più il bene comune, ma il bisogno individuale immediato. La politica non riesce a soddisfare i bisogni personali. E, rifugiandoci nella dimensione individuale, ci ritroviamo perennemente insoddisfatti e ci sentiamo sempre rabbiosamente in credito verso la politica. Pertanto, a volte, alla fine decidiamo d’istinto di non regalare e concedere niente a nessuno dei politici. Facendo loro così il più bel regalo, invece.

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