LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA DEI COMUNI

Articolo 41 della Costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”

Ai sensi dell’art. 41, comma 3, della Costituzione, il potere pubblico ha sempre attuato delle strategie di politica economica per eliminare gli squilibri settoriali e territoriali e individuare i fini dello sviluppo generale. La programmazione è, infatti, una “progettazione sociale” intesa come modo di esercitare la funzione politica di governo.

Negli anni ‘50-60, l’art. 41 della Costituzione fu valorizzato per il solo primo comma, di cui fu riconosciuta la portata programmatica, con l’obiettivo di dare il più ampio spazio possibile al mercato ed alle sue regole. Erano gli anni del cd. miracolo economico, in cui il meccanismo di accumulazione dava risultati notevoli. L’organizzazione pubblica assumeva dimensioni ancora più vaste, per effetto dell’assunzione di compiti nuovi e soprattutto per effetto dell’istituzione delle Regioni.

La crisi congiunturale degli anni ‘70 cambiò il contesto economico-culturale: crescevano i costi di agglomerazione nelle regioni del teatro industriale, si verificava una sorta di saturazione economica, e gli imprenditori privati cercavano di difendere i propri profitti o spostando i capitali all’estero o chiedendo sempre più spesso l’intervento dello Stato. Fu allora rivalutato il secondo e principalmente il terzo comma dell’art. 41 più volte citato, con l’emanazione di una legislazione vincolistica e di tutela del settore dell’ambiente e del lavoro.

Soprattutto si riscoprì che l’iniziativa economica privata andava regolata per raggiungere gli stessi obiettivi perseguiti dall’impresa pubblica: la tendenza a pubblicizzare tutti gli interessi possibili si stava invertendo.

A partire dagli anni ‘80, si è frenata l’assunzione da parte dello Stato della gestione di determinati rami produttivi di particolare interesse collettivo, poiché ciò comportava un rilevante aumento dei costi sociali ed un aggravio del bilancio statale non compensato peraltro da un pari aumento delle entrate, e si è fatto sempre più spesso ricorso all’indebitamento pubblico.

Nell’ultimo decennio si sta assistendo ad una sorta di ritorno alla normativa post-unitaria, ad una rivalutazione cioè dell’impresa privata per correggere gli squilibri di settore. Ciò, anche sotto l’influenza del diritto comunitario, che guarda con sfavore le imprese pubbliche e le partecipazioni statali, in quanto potenzialmente perturbano il funzionamento e l’equilibrio concorrenziale del Mercato comune europeo.

L’intervento pubblico nell’economia è attualmente un fenomeno in via di contrazione, stante la progressiva «fuga nel diritto privato». La tendenziale privatizzazione, formale o sostanziale che sia, sta interessando tutti i settori. Lo scopo è quello di ridimensionare uno dei maggiori aggregati economici, ossia la spesa pubblica e l’indebitamento, e quindi di non aggravare ulteriormente le perdite di esercizio del bilancio dello Stato, causate da una dilatazione generalizzata dei compiti della pubblica amministrazione a partire dagli anni ‘70.

La programmazione economica non è solo strumento di governo nazionale, ma anche strumento importante e utilissimo, se in mano ad amministratori preparati e intelligenti, degli enti locali, in particolare dei comuni.

Uno degli strumenti fondamentali per la programmazione economica di un comune sono gli strumenti urbanistici e gli altri strumenti collegati alla gestione della vita del territorio.

Per fare solo degli esempi concreti con la realtà della nostra città, le scelte urbanistiche dell’attuale amministrazione non sono “indifferenti” alla vita economica della città. Si è scelto di lottizzare terreni di periferia per favorire la costruzione di nuove abitazioni fuori città, quando il centro storico si sta svuotando e sta diventando in parte una città desertificata, in parte una casba. Naturalmente questa non è stata una scelta di programmazione ma una scelta di politica clientelare.

Qual’è il risultato di una tale politica? La città, ivi compresa Marina di Ragusa, ha una disponibilità di unità abitative di circa tre volte le effettive necessità. Il territorio e la natura sono stati letteralmente saccheggiati, si è arricchita una classe di imprenditori edili che si possono contare, per consistenza, con le dita di una mano. Il centro storico, che si dice di voler rivitalizzare in modo improbabile con la ripavimentazione delle vie del centro, è composto prevalentemente da case, spesso anche quelle patrizie, fatiscenti e a rischio di crollo in caso di eventi atmosferici o terremoti anche di leggera intensità.

Una politica di programmazione alternativa, avrebbe dovuto innanzitutto censire le esigenze abitative effettive della città, favorire il ripristino delle vecchie abitazioni del centro storico, agevolando in tal modo la messa in sicurezza delle costruzioni vecchie, anche con indicazioni sulle caratteristiche architettoniche da seguire. Ciò avrebbe rivitalizzato il centro storico, mantenendo in situ gli abitanti dello stesso, avrebbe dato lavoro a molte migliaia di artigiani piuttosto che a pochi grossi imprenditori, avrebbe fatto risparmiare enormi risorse, finora destinate alla costruzione di immobili inutili, da destinare a nuovi investimenti economici utili alla realtà economica.

Anche un collegamento urbano tra Ragusa e Marina di Ragusa, efficiente e a costi sociali, permetterebbe di utilizzare tutto l’anno molte delle abitazioni di villeggiatura.

Naturalmente, una programmazione economica seria può esistere solo se in mani ad amministratori disinteressati, competenti, che guardano lontano nello sviluppo della società e non agli interessi elettorali del proprio partito. Ma di ciò, guardando la nostra classe politica, di maggioranza e opposizione, purtroppo, non si vede all’orizzonte nessuna novità.

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