LA LINEA

Sulla cultura del fitness si possono spendere molte parole, analizzarne le implicazioni socio-patologiche e psico-patologiche, ricondurne i valori fondanti a un groviglio di segni portatori di un senso coerente e unificante. Qui ci faremo bastare poche ma dirette considerazioni.

La smodata attenzione che si presta alla propria immagine è la giusta penitenza che ci tocca per aver da tempo rinunciato a vivere le cose, dentro le quali – nel contatto con il nucleo incandescente della loro essenza – è facile perdersi. L’imago è il frutto di un ritiro, di una implosione del desiderio, che non ce la fa a sostenere l’oggetto, la sua capricciosità e volubilità, e ripara sul Sé, che nel frattempo si è ridotto ad oggetto esso stesso.

Fuori da questa interpretazione diventa difficile spiegarsi perché la crescente cura di sé – che contraddistingue la contemporaneità – vada di pari passo con la perdita di interesse per l’altro, vissuto a volte persino come oggetto persecutorio.

La linea, metafora geometrica della perfezione, si impone come un valore assoluto, cui si sacrificano la capacità di godere e di essere con, nella spasmodica esultanza per l’intangibilità del Sé e per il controllo assoluto dell’Altro, di cui si pretende di modulare la qualità e l’intensità del desiderio.

Le immagini traboccano di questo senso pervasivo del controllo: le cover girl sembrano somigliarsi un po’ tutte, nell’attenzione per la eliminazione di ciò che rende meno che perfetta la corrispondenza al canone. D’altronde, si sa che ad introdurre l’imperfezione nel mondo è proprio la differenza, che può consistere in un piccolo, delizioso dettaglio, ma che non ha diritto di cittadinanza nell’universo del bello.

La matrice culturale e dunque segnica di ciò è sotto i nostri occhi: chiunque osservi una realizzazione pittorica rinascimentale, non può che restare stupito per la mancanza assoluta di corrispondenza delle immagini femminili rispetto ai canoni odierni di bellezza: la rotondità se non l’obesità, la floridezza, gli accumuli adiposi, assurti al rango di elementi descrittori di una desiderabilità totalmente diversa, centrata sull’abbondanza, sull’addizione e non certo sulla sottrazione.

Vien fatto di chiedersi se queste trasformazioni del valore estetico non vadano in sincronia con le trasformazioni del mondo sociale e materiale: in un’era di mancanza e di indigenza il valore estetico riposa nell’abbondanza, in un’era di superfluo e di traboccante il valore estetico riposa nell’esile, nel contenuto, nel controllato.

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