LA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA È DIVISA SUL DIVIETO DI INDOSSARE IL VELO ISLAMICO NEI LUOGHI DI LAVORO

La Corte di giustizia dell’Unione Europea è divisa sul divieto di indossare il velo islamico nei luoghi di lavoro: su due casi simili, gli avvocati generali sono giunti a delle conclusioni opposte l’una all’altra e toccherà ora a giudici risolvere la questione.

L’avvocato Sharpston ha affermato oggi che vietare il velo è “un’illegittima discriminazione diretta”, mentre un mese fa il suo collega Kokott aveva detto che il divieto è “legittimo”, se risponde a una regola aziendale di neutralità religiosa e ideologica.   

“Una politica aziendale che impone a una dipendente di togliere il velo islamico quando si trova a contatto con i clienti costituisce un’illegittima discriminazione diretta, ha sottolineato l’avvocato generale della Corte di giustizia, Eleanor Sharpston, mettendo così in discussione le conclusioni pubblicate dalla sua collega Juliano Kokott a maggio, secondo cui il divieto a indossare il velo è invece legittimo, se risponde a una regola aziendale di neutralità religiosa e ideologica.

Toccherà ora alla Corte mettere un punto fermo sulla questione, evidentemente molto delicata e dibattuta.

I due avvocati si sono espressi su cause differenti.

Le conclusioni fanno riferimento al caso di una donna musulmana assunta come ingegnere progettista dalla Micropole, società di consulenza informatica nel 2008. Quando lavorava, a volte indossava un velo islamico che le copriva il capo. Ma quando uno dei clienti si è lamentato, l’azienda le ha chiesto di non metterlo più. La signora si è rifiutata ed è stata licenziata dall’azienda che sosteneva come il rifiuto rendeva impossibile lo svolgimento dei suoi compiti all’interno dell’impresa.

L’avvocato Sharpston sostiene che il licenziamento della signora “configura una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali”. E fa notare che “è probabile che una politica aziendale che impone un codice di abbigliamento totalmente neutro costituisca una discriminazione indiretta”.

Conclusione totalmente opposta da quella della sua collega Kokott, che a maggio, su un caso simile, aveva concluso come “non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione il divieto posto ad una lavoratrice di fede musulmana di indossare un velo sul luogo di lavoro”.

Giuseppe Raciti

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it