KEITH JARRETT

L’artista è immenso, l’unico divo del jazz system, che di solito non è che se ne possa permettere tanti (l’ultimo era stato Miles Davis).

L’uomo è fragile, scostante. Sempre più imbozzolato nelle sue nevrosi: l’ultima apparizione a Umbria Jazz ha definitivamente approfondito il fossato fra il genio da ascoltare e il personaggio da maledire, coi suoi atteggiamenti irriguardosi nei confronti del pubblico e degli organizzatori, la pretesa di suonare al buio e il suo orrore fobico per i flash e la tosse.

Ma partiamo un po’ più indietro.

Il libro che meglio lo racconta è certamente Keith Jarrett,  di Ian Carr, talentuoso trombettista inglese che nei primi anni ’70 fondò i Nucleus, formidabile macchina del jazz rock di ispirazione davisiana. Il racconto di Carr della personalità di Jarrett, così finemente intrecciata alla sua arte musicale,  evidenzia proprio la complessa relazione fra i nodi strutturali del carattere e alcune delle forme peculiari del suo fare musica: una fra tutte, naturalmente, la propensione a proporsi in solo e in entrambi i contesti, jazzistico e classico.

Un film intervista, The art of Improvisation, svolge il nastro della sua prolifica carriera attraverso immagini affascinanti: bucano lo schermo personaggi come Jan Garbarek, Davis, Charlie Haden, Chick Corea. Da brivido le sequenze di un concerto del quartetto americano, con Dewey Redman al tenore, in uno dei momenti in cui il gruppo fondeva jazz, gospel, rock.

Dell’immensa produzione di Jarrett cosa proporre se non un trittico che rappresenti al meglio i suoi tre “registri” musicali: in gruppo (ormai ridotto al cosiddetto Standard Trio), il solo piano, il classico.

Per il primo la scelta cade su quello che probabilmente è il suo capolavoro con il quartetto americano (curiosamente registrato dalla ECM, per la quale Jarrett suonava con il quartetto europeo): The survivors’ suite, una lunga vibrante suite nella quale luccicano tutti i tasti del suo linguaggio jazzistico, la sapienza di scrittura, il feeling e la soulness del canto, i colori timbrici, l’intensità emotiva. Per il secondo la scelta cade su Rio, doppio album di recente pubblicazione, che ben fissa lo stato dell’arte improvvisativa in solitudine del nostro.

Per il terzo, può bastare il duetto con Michala Petri, Bach Sonatas, in cui il piano è sostituito dalla spinetta.

 

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