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INTERVISTA A UN VECCHIO PRETE A 50 ANNI DI SACERDOZIO
15 Set 2013 12:01
Un bel traguardo, il suo!
Oh, sì e sono contento, finalmente!
Può spiegare meglio il Suo pensiero.
Certamente, ma la prendo un po’ alla lontana.
Domenica, 14 di luglio del 1963. Mons. Oreste Rauzi impose le mani ed ha invocato lo Spirito Santo: sacerdote di Dio per sempre. Cinquant’anni fa.
Si potrebbe definire il suo Giubileo. Come si sentì all’epoca?
Alla chiamata della Chiesa ricordo aver risposto “sì”: un “sì” sincero, però accompagnato da uno stranito e amaro senso di insufficienza. “Perché io?”
E ora?
Già! Cinquant’anni dopo, come mi ritrovo adesso? A voler essere sincero, adesso mi sento intimamente contento di essere prete, ma solo da un pugno di settimane.
Potrebbe illustrare meglio la sua affermazione di 50 anni ridotti ad un pugno di settimane?
Ti racconto.
I miei cinquant’anni si dividono in 15 anni di attività in diocesi ed in giro per Italia, e 35 anni di missione in Bolivia.
Sono nato prete durante il Concilio Vaticano II. Stando a Roma, e studiando Liturgia al Pontificio Ateneo di San Anselmo, mi son lasciato coinvolgere dall’ebbrezza di quelli anni: momento eccezionale della storia, profumi di primavera ecclesiale, un mare di novità, tanti sogni per un futuro costituito da tante possibilità, e tutte belle.
E quindi?
Tornato a Trento, invaghito dal senso sacramentale della Chiesa locale, mi sono avvicinato a tantissimi preti diocesani: mi hanno trasmesso il gusto santo per le comunità locali, e la loro passione di preti in trincea. Una ammirazione che mi accompagna ancora.
La trasmissione capillare nelle parrocchie delle proposte conciliari, mi hanno immesso nel travaglio delle gente, a volte entusiasta e a volte perplessa, ma desiderosa di mettersi in cammino. La gente mi ha trasmesso il bello delle esperienze spirituali vissute in profondità. Mi prese la voglia di correre, con loro.
Che cosa le mancò allora?
Subentrò la sensazione di aver trascurato certe radici sostanziali. Ed in quei giorni mi venne suggerita la possibilità di passare un paio di anni in America del Sud, da dove arrivavano notizie di aria nuova: Cristiani per il socialismo del Cile, Comunità di base del Brasile, la vita cristiana come Festa un po’ da ogni comunità.
Sì, ricordo che c’era molto fermento all’epoca… e ci andò.
Ci andai e… sono tornato ieri, dopo trentacinque anni.
Cosa trovò in Bolivia da restare così a lungo?
Prima vorrei dire il mio grazie commosso, perché la gente delle campagne, con semplicità e naturalezza, mi hanno fatto riassaporare le dimensioni della mia infanzia, delle relazioni spontanee, solidali e gratuite, della fiducia aperta all’amicizia, del godere le giornate come tempo da vivere nella cordialità e non come ore da riempire di programmi. Ho lavorato molto, ma come divertimento, pensando solo alle persone. E il mio senso di insufficienza è diventato semplice patrimonio della mia personalità, senza amarezza.
Che cosa Le ha insegnato questa esperienza?
Soprattutto ho imparato ad ammirare il miracolo che è ogni uomo, ed a goderne accogliendolo. Questo ha fatto tracimare la mia naturale curiosità, trasformandola in ricerca sistematica delle culture andine, degli usi tradizionali, delle memorie storiche. Poi queste “ricchezze” di umanità culturale hanno orientato la mia vita “missionaria” in un servizio particolare: aiutare le persona ad uscire da sofferti complessi di inferiorità, a ad assumere con orgoglio il proprio passato, a diventare critici dei tempi trascorsi ma anche dello specchismo distorto delle culture del Nord: mi sono dedicato in varie forme, soprattutto nell’insegnamento universitario, a trasmettere il gusto di usare la propria testa, a non vergognarsi mai della propria famiglia, a confrontarsi con tutti ma senza perdere la propria identità. In cambio mi hanno regalato la loro amicizia.
Lei che come ha detto, ha anche lavorato molto per il recupero del passato della terra boliviana, con ricerche approfondite, storiche, Ha scritto anche un libro La fiesta del Tata Bombori…(introvable) se ricordo bene ha anche aperto un museo a Mizque…
Ho risposto già. Comunque sì, ho fatto anche questo.
E poi?
E dopo tanti anni, trentacinque, è venuto il tempo di ritornare a casa.
Quindi ha realizzato quanto si prefiggeva…
Mi accompagna sempre il senso della mia insufficienza (ora la constato quasi scientificamente), mi è rimasta la passione per le comunità cristiane locali, continuo attento ai piccoli gesti di vita umana assaporandoli come “sacramenti” della Trinità di Dio, continuo ininterrottamente ad esplorare gli orizzonti sconfinati della mia ignoranza, in tutti i settori. Sono tutte “passioni” di cui non provo vergogna.
Bene, ora dopo 50 anni di sacerdozio…
E adesso, appunto, dopo cinquant’anni di sacerdozio, sostanzialmente di celebrazioni della Eucaristia e di proclamazione della Misericordia di Dio, si è compiuto il miracolo: mi sento intimamente contento di essere prete.
Questo credo sia la cosa più importante per una persona anche per un laico o non credente essere intimante contento di essere ciò che si è.
Ma naturalmente! Chi ringraziare? Quella gente a cui avevo insegnato le riforme liturgiche ed i nuovi canti, che avevo “presieduto” nell’ascolto della Parola e nel Memoriale della Salvezza, quei cristiani di Trento che avevo “lasciato indietro” per camminare su altri lidi del globo, quella gente mi ha aiutato, adesso, a “prendere il mio posto” contento di essere sacerdote dentro la Chiesa. Detto in linguaggio clericale: la assemblea attenta devota, che canta e partecipa, adesso aiuta me a pregare, da prete. Ed è bello!
Per concludere questa intervista, vuole, gentilmente, dire una frase per i lettori di RagusaOggi?
Sono contento di essere prete, grazie alla Chiesa locale, ai confratelli parroci, ai campesinos boliviani, agli “scherzi” della Grazia. Ma dopo lunghi Cinquant’anni. Vi rendete conto? Non è mai troppo tardi, per essere contenti.
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