IN MEMORIA DEL 16 OTTOBRE 1943

Credo che tutti oramai conoscano quanto avvenne in quell’orrendo 16 ottobre di 70 anni fa a Roma. A una mia carissima amica deportarono sei famigliari, che non rivide più, e quattro di loro sono  certamente (documentato) morti quasi subito ad Aushwitz, presso Cracovia, in Polonia, mentre di due si sono perse le tracce.

Per gli avvenimenti di questi giorni, tra cui la morte del centenario criminale nazista Priebke, mi è venuto in mente un libro di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti.

Egli, giovane architetto, nel 1941, venne tradotto nel lager in quanto ebreo. Alla liberazione, ancora vivo per miracolo dopo anni e pellegrinazioni da un campo di concentramento all’altro, tornato libero, si dedicò a cercare e denunciare alla giustizia i criminali nazisti. Ne trovò tanti e scrisse anche un libro negli anni ’60 Gli assassini sono tra noi, dove raccontava come aveva trovato questa o quella SS. Di un racconto in particolare vorrei menzionare qui. Nel 1942, a Leopoli in Ucraina, dove era prigioniero in un campo, venne mandato con una squadra all’ospedale militare, per asportare i rifiuti. Si avvicina un’infermiera che lo invita a deporre il badile e seguirla.

Cercò di rifiutare, ma il sorvegliante gli ordinò di andare. Obbedì. L’infermiera gli lo portò al capezzale di una giovane SS morente e li lasciò soli. Il ferito, lo invitò ad avvicinarsi perché è molto faticoso parlare forte e Simon Wiesenthal si sedette sul letto.

Il morente, ”Mi sono rassegnato all’idea di morire presto, ma prima vorrei ancora parlare di qualcosa che mi tormenta. Altrimenti non posso morire in pace.” Vuole parlare con un ebreo e ha chiesto di poter incontrare uno di loro. Ha in mano una lettera della madre. Wiesenthal pensa alla sua di madre, che ora è dove non si scrivono più lettere… e la giovane SS, gli fa una lunga confessione delle atrocità commesse. “Io non sono un assassino, mi ci hanno fatto diventare un assassino”. E gli narra anche del padre e della madre della sua entrata nella Gioventù Hitleriana… “Mia madre non deve mai sapere quello che ho fatto”. Continua a raccontare della sua giovinezza, costringendolo in un certo senso a pensare alla sua… L’ebreo vorrebbe allontanarsi, ma il ferito lo  trattiene disperatamente e continua la sua terribile confessione. Non riesce a dimenticare quanto ha commesso. “I dolori fisici mi straziano orribilmente. Ma ancora più orribilmente mi strazia la mia coscienza.” Simon Wiesenthal comprende che vuole essere perdonato e che è pentito sinceramente per quello che ha fatto. Ma resta in silenzio. Il morente lo prega: “Voglio morire in pace, e allora ho bisogno… Lei è un ebreo e voglio chiedere il perdono a un ebreo… solo non sapevo se ne erano rimasti ancora. Lo so, quello che le chiedo è forse troppo per lei, ma senza una sua parola non posso morire in pace. ”

Simon Wiesenthal si sente impotente. Guarda le mani giunte della SS e esce silenziosamente dalla stanza e torna dai compagni. Due giorni dopo l’infermiera gli consegna un pacco con l’indirizzo della madre del soldato, morto nel frattempo.

Lo porterà alla fine della guerra alla donna e non racconterà ciò che ha saputo del ragazzo. Ma si chiederà spesso se ha fatto bene a non perdonare. Lui dice che fosse stato solo per lui la decisione sarebbe stata dettata solo dalla sua  persona, dalla sua coscienza e quindi la responsabilità poteva essere discussa, ma non se l’è sentita di perdonare in nome di tutti gli altri. Non sarebbe stato giusto. Ha chiesto a personalità giuridiche, ecclesiastiche, o correligionari e molti gli hanno dato ragione, soprattutto chi ha vissuto gli eventi persecutori nazisti. I ‘buonisti’ erano quelli che non hanno toccato con mano. Una bella domanda. Si deve sempre perdonare anche a nome degli altri, oppure no?!

 

 

 

 

 

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