È stata inaugurata a Vittoria la nuova area di Osservazione Breve Intensiva (OBI) presso il Pronto Soccorso dell’ospedale “Guzzardi”. L’area è stata intitolata alla memoria di Giuseppe Morana, storico dirigente amministrativo dell’ospedale, alla presenza dei familiari e delle autorità locali. La cerimonia ha visto la partecipazione del Direttore Generale dell’ASP di Ragusa, Giuseppe Drago, della […]
IMMAGINI IN PARALLELO: SESSUALITÀ, ERBA E KATA
20 Mag 2017 09:47
Ho un terreno. Duemila metri, circa. Per vari motivi, quest’anno, non l’ho curato. L’erba s’è fatta alta, dura e secca. Va tolta, è pericolosa, può incendiarsi. Giorni di lavoro di operai. Le mie finanze non me lo consentono. Decido di far da me. Non consumo energia muscolare con la pratica del kendo e altre attività fisiche?! Non sono per il riciclaggio dell’energia muscolare?! Decido così di comprare un decespugliatore. Mi consigliano di comprarlo buono. Seguo il consiglio coerente col proverbio “o caru arrivaci, o pirnenti pensici” sforzati d’arrivare a comprare l’oggetto che costa caro; pensaci invece bene prima di comprare quello poco costoso perché, nel corso del tempo, l’oggetto di qualità farà bene quello per cui è stato costruito e procurerà piena soddisfazione a chi lo usa che esclamerà, tutte le volte, biniritti i sordi, benedetti i soldi che ho speso per comprarlo! Compro un decespugliatore quasi professionale, un 48 cc.
Ho provato un po’ di fastidio nell’imparare a usarlo. Alla mia età, mettermi a fare mestieri nuovi e non agevoli! È un’arma potente, con la lama circolare metallica coi denti a sega. Mi mette anche inquietudine, se non anche timore. Non ho mai usato un aggeggio del genere. Può essere pericoloso. Vedo l’erba come un mostro. Un ammasso enorme, grigio, indistinto. L’affronto con rabbia. Affondo la lama senza pietà. Dei fili d’erba si attorcigliano attorno all’attaccatura della lama. Che succede?! Stendo la mano per toglierli, la lama gira, tiro indietro la mano. Aspetto che sia ferma, totalmente ferma. Mi sento debole di fronte al mostro e all’arma che impugno. Mi dico: calma Ciccio, calma, l’erba non è un mostro, ha fatto il suo mestiere, è cresciuta, la rabbia è dentro di te, dovevi pensarci prima quando era ancora tenera. Faccio un respiro lungo e profondo. Capisco perché i ciuffi d’erba si attorcigliano e vado avanti col lavoro. Guardo l’erba “negli occhi”, la studio, ci parlo. Mi pizzica la schiena, regolo bene la lunghezza della tracolla, mi metto in asse, prendo confidenza coll’attrezzo, la mente è distesa, segue quel che succede e il lavoro diventa meditazione.
Nei giorni successivi la fiducia e la sicurezza aumentano. Scopro posizioni che mi alleviano la fatica. Mi accorgo, tuttavia, che le mie braccia hanno un’aggressività che non serve. Cova ancora dentro di me un’aggressività inutile verso l’erba. Forse è meglio andarci dolcemente. Ci provo. Uso il decespugliatore non come un’arma ma come il prolungamento delle mie braccia che si protendono verso l’erba, che l’accarezzano e la vezzeggiano. L’erba cede e si adagia. È come conquistare il partner non con la forza ma con le carezze e la dolcezza. È come nella sessualità matura e consapevole quando si è in grado di governare l’impeto erotico e tra i due amanti non c’è scontro ma la ricerca dell’altro e il rispecchiamento nell’altro attraverso l’esplorazione di mille percorsi, il piacere di mille scoperte e la preziosità di mille ricami.
Il lavoro col decespugliatore diventa piacevole anche se una certa fatica c’è o grazie ad essa. La mente sempre più distesa. Penso ai kata nella pratica del kendo, la via della spada, l’arte marziale giapponese. Ogni kata, sette nella esecuzione con il bokken – la spada di legno – è composto da una serie di movimenti in una sequenza codificata. C’è uno sfidante, uccidaci, ed uno sfidato, scidaci. Uccidaci lancia la sfida e alza la guardia. Scidaci accetta. Uccidaci avanza di tre passi ed anche scidaci avanza. Si fermano alla distanza giusta per colpire. Uccidaci colpisce pronunciando jaaa! Scidaci scansa il colpo e a sua volta colpisce, virtualmente ovvero fermando la spada a pochi centimetri dal corpo dell’altro, pronunciando tooo! Uccidaci dà segni di accettare il colpo e di ritirarsi. I due indietreggiano ritornando alla posizione di partenza. Il tutto si esaurisce in qualche minuto. Nel kata non c’è simmetria tra i due: uccidaci è il maestro che sfida l’allievo non per batterlo, non per fargli vedere quanto è più bravo, non per umiliarlo ma per potenziarne la bravura, l’attenzione, la consapevolezza. Perciò è il maestro che prende sempre la botta, seppur virtuale. Al maestro spetta il compito di sorprendere l’allievo. All’allievo il compito di cogliere la sorpresa e di rispondere. Pur nella sequenza codificata dei movimenti. Sempre gli stessi per ogni kata.
Tra i praticanti del kendo si ripete continuamente l’esecuzione dei kata invertendo i ruoli di uccidaci e scidaci. Per anni! A raccontarla fuori c’è da essere presi per scemi. Con una certa ragione. Ripetere sempre gli stessi movimenti? che piacere c’è? non ci si annoia? Chi li pratica, invece, si ci appassiona. Le motivazioni? Saranno le più disparate, forse ognuno ha le sue. C’è il beneficio dell’esercizio fisico da non sottovalutare in questa quotidianità sedentaria ma assolutamente non può essere la motivazione fondante.
Mentre vado avanti col decespugliatore cerco di trovare una spiegazione del perché una persona, sana di mente, si dedichi, con convinzione e senza annoiarsi, alla reiterazione di sette sequenze codificate di moventi che si esauriscono in pochi minuti. Ne penso due possibili.
Il kata come dogma. Ci può essere chi, magari avendo abbandonato i dogmi cattolici della sua gioventù ma non avendo accantonato il bisogno dei dogmi, può vedere il kata come un dogma, come cosa sacra da eseguire alla perfezione, fino ai centimetri se non anche ai millimetri. E vedere, nella ricerca della esecuzione perfetta, la ricerca di una sua perfezione spirituale.
Il kata come metafora della sessualità senile e fedele. Penso a due persone che per quaranta anni si sono accompagnati per l’intero percorso della loro via e hanno fatto l’amore insieme. Senza mai cambiare partner. Quante volte l’avranno fatto? Quattro mila, cinque mila volte, forse più. E ora, a sessant’anni compiuti cosa può più sorprenderli? Non certo nuove sequenze di movimenti. Quelle sono state già sperimentate tutte e restano gelosamente custodite dal segreto del talamo. A quell’età già poche cose sorprendono nella vita di una persona e se anche fare l’amore non è una sorpresa, andare avanti diventa alquanto triste. La sorpresa la si ricerca allora negli occhi, nel riconoscere di essersi rafforzati e arricchiti nel vivere insieme una vita, di aver costruito insieme momenti di felicità, di aver lottato insieme contro le avversità, di essersi reciprocamente appoggiati e sostenuti nei momenti difficili, di essersi presi per mano quando la strada da percorrere non era agevole, di aver goduto insieme momenti di grande serenità e pace, di aver superato momenti di contrasto, di avere la schiena dell’anima orgogliosamente ancora dritta. Da questa consapevolezza e ricchezza nasce, seppur a sessant’anni, seppur nel ripetere per l’ennesima volta la stessa sequenza, il piacere di ancora sorprendere ed essere sorpreso, il piacere di provare ancora piacere. Non è questione di gesti eclatanti e speciali ma di messaggi che attraverso i gesti si trasmettono da anima ad anima.
A me piace questa seconda spiegazione. Vivo i compagni come persone con cui mi accompagno in questi rituali settimanali della pratica del kendo. I riti sono ciò che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora diversa dalle altre ore e aiutano a vivere meglio. Penso a quante volte ho odiato i miei compagni di kendo e a quante volte li ho amati. Vedo come ho imparato ad appoggiarmi a loro e a dare appoggio, a conoscerli e ad arricchirmi della loro conoscenza e loro della mia. E allora nel reiterare le sequenze dei kata, più che pensare alla perfezione dei movimenti, guardo negli occhi il compagno e da quello che leggo o credo di leggere invento, se sono nel ruolo di uccidaci, il come sorprenderlo e, al tempo stesso, vigilo sulla sua presenza attenta e reattiva. Viceversa, nel ruolo di scidaci, spero nella sua sorpresa per rafforzare la mia presenza attenta e reattiva. Non è questione di gesti eclatanti e speciali, ché la sequenza è codificata e immodificabile, ma di messaggi che attraverso i gesti si trasmettono da anima ad anima. Negli occhi del compagno si legge la consapevolezza, la fiducia, la stima, il rispetto e, talora, si scorge l’ombra di un qualche travaglio che lo porta da un’altra parte. Di questa comunicazione tra persone vive si sostanzia il piacere della pratica dei kata. La perfezione dei gesti viene dopo, viene da sé. E se anche non viene. . .
Ragusa, 9 giugno 2009
Ciccio Schembari
Pubblicato sul n. 47/2009 “Sesso” della rivista on line www.operaincerta.it
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