IL ROCK E IL SUO FUOCO (A VOLTE FIOCO)

Prima di entrare – e perdermi – nell’universo del jazz, ho avuto la mia intensa stagione di innamoramento per il rock, quello dai ’60 a tutti i ’70 che ha accompagnato le rivoluzioni di costume, ma anche quelle – purtroppo fallite – dei popoli. Il rock che si ascoltava alla radio e attraverso i pochi dischi disponibili, magico collante che teneva insieme la voglia di cambiamento e il rassicurante radicamento nelle sue strutture metriche e timbriche.

La natura di questa musica è controversa. La sua stessa genesi lascia dubbi: il rock & roll nacque probabilmente come l’ennesima prevaricazione bianca sulla cultura nera, provenendo dai filoni del rythm&blues , del boogie e  del gospel  cui quella musica pure somigliava, ma in una estrema semplificazione dei loro tratti distintivi. Eppure, verso la metà degli anni ’60, la sua tumultuosa “bianchificazione” la emancipò in gran parte dalla sua originaria colpa e la proiettò verso una dimensione totalmente diversa, divenendo la musica bianca del dissenso.

Gino Castaldo scrive degli elementi primigeni che hanno fatto della musica la colonna sonora del mondo: il suo Il buio, il fuoco, il desiderio accende una voce di amarezza sulla perdita, sulla morte della musica. Un mondo pervaso di connessioni e di downloading, saturato dalla presenza della musica, che vede sostanzialmente illanguidirsi quelle fonti di energia che hanno reso possibile – ciclicamente – la sua rinascita, la sua forza. Manco a dirsi, molto del materiale musicale cui l’autore fa riferimento appartiene al rock a pieno diritto.

Che, però, continua a esprimere una sorta di sintomatica scissione, come una schizofrenia valoriale, fra dissenso e conservazione (qualcuno tempo fa ebbe a dire che il rock è una musica “reazionaria” o “di destra, se si preferisce….). Come è sottilmente rappresentato da Paolo Sorrentino nel suo There must be the place, con un immenso Sean Penn che indossa la maschera di un vecchio glamour rocker (per intenderci, alla Kiss), attraversata da rivoli di lacrime rattenute, un’esistenza congelata in una specie di timofobia (fobia per le emozioni), refrattaria al fatto che il tempo, la morte, la vita bussino alla porta da tempo.

Come non finire con quello che probabilmente è il più grande gruppo rock di sempre: i Led Zeppelin. Kitsch e genuine vibrazioni blues, iconoclastie ed eteree tensioni celtiche, il sound più greve e potente che il rock abbia mai espresso e la struggente malinconia e bellezza delle ballads. Che a loro si debba quella che una quindicina di anni fa fu indicata da un sondaggio de La repubblica come la più bella song di sempre, Stairway to heaven, non è forse casuale, baciati come sono stati, per anni, da una musa creativa straordinaria. Il loro Celebration day – che come al solito consiglio caldamente in bluray – fotografa al meglio la solitaria reunion del 2007 che vedeva il Bonzo Bonham, passato a miglior vita, sostituito a meraviglia dal figlio Jason.

Tenete il volume alto. Altrimenti non vale la pena.

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