IL NON GRADITO TRIONFO DI ERDOĞAN

Parlare di Turchia, indipendentemente dall’argomento, risulta sempre difficoltoso. L’approccio con questo Paese non è mai sereno, asettico, scevro di preoccupazioni. Sarà per via di una storia remota che non abbiamo ancora metabolizzato, di Lepanto, dell’assedio di Vienna, che poi sono stati dei conflitti del tutto secondari e per niente totalizzanti, rispetto ad una continuità fatta di interrelazioni amichevoli.

Parlare oggi di Erdoğan, come del resto di Putin, personaggi politici alla ribalta delle cronache della politica internazionale, lo si fa sistematicamente con toni ammantati da atmosfere sinistre e distorcenti la realtà. Erdoğan ora è il sultano che promette vendetta ai traditori, così come Putin è lo zar alla conquista dell’Europa. Sarà forse per quel vertice trilaterale svoltosi il 6 agosto 2009, ad Ankara fra Erdoğan, Putin e Silvio Berlusconi, durante il quale era stato sottoscritto un protocollo di cooperazione Eni e Gazprom per la realizzazione del gasdotto South Stream attraverso il Mar Nero[1].

Berlusconi è stato detronizzato dal “golpe” del 2011 ordito da Napolitano per spedire Mario Monti al governo, cui – con il benplacito di una democrazia di cui tutti i media si riempiono la bocca – gliene sono succeduti altri due non votati dagli elettori.

Con Erdoğan si è cercato di fare lo stesso, di delegittimarlo destabilizzando un Paese, che due anni fa aveva superato il PIL della Cina, ambendo di entrare, nei prossimi dieci anni, fra le dieci potenze economiche del pianeta. Questo a partire dall’estate scorsa con i fatti di Piazza Taksim, quindi con la tangentopoli turca e gli scandali che hanno investito alcuni dei ministri del suo governo.

Con Putin la campagna denigratoria è tuttora in corso, quantunque, tutt’altro che scontata nella sua realizzazione. Una nuova guerra fredda e una nuova coalizione si prospettano all’orizzonte: un’Alleanza Eurasiatica versus un’Alleanza Atlantica. Dove le due grandi potenze che costituiscono la prima sono rispettivamente Russia e Cina, mentre gli altri siamo noi europei, servi della “vecchia” America.

Tant’è che Obama, durante la sua ultima visita ufficiale a Roma, è stato accolto in pompa magna dal premier Renzi, il quale si è voluto appropriare perfino del suo obsoleto slogan elettorale “yes, we can!”, aggiornandolo alle esigenze dell’Italia.   

Sta di fatto che la stampa italiana, nonostante in loco non manchino né gli inviati né gli osservatori, per l’ennesima volta si dimostra incapace di decodificare la realtà turca. Non dispensandosi però da titoli con slogan da tifoseria si arrampica sui vetri, per giustificare il nuovo successo di chi, a suo dire, era già stato sconfitto prima ancora del voto.

Il risultato delle amministrative del 30 marzo è, infatti, stato il seguente: l’Akp, ovvero il partito di Erdoğan è stato il primo partito in assoluto, attestandosi attorno al 47 per cento. Una percentuale, come hanno commentato varie testate, non lontana da quel 49.6 per cento delle politiche del 2011, ma molto più alta delle cifre supposte alla vigilia dell’evento elettorale. Un esito reso ancora più importante dalla conferma delle due delle metropoli turche: Ankara e Istanbul, oltre ad Izmir in cui comunque l’Akp si situa al secondo posto. A dispetto di chi le considerava roccaforti dell’opposizione, dei moti insurrezionali di Piazza Taksim, dando Erdoğan vincente solo nelle conservatrici e retrograde provincie della profonda Anatolia.

Ad Ankara il candidato di Erdoğan, Melih Gökçek, ha raccolto il 44,7 per cento dei voti contro il 43,8 per cento del suo rivale del repubblicano del Chp, Mansur Yavaş, mentre ad Istanbul è stato riconfermato Kadir Topbaş con il 47,8 per cento dei voti. Il suo avversario Mustafa Sarıgül, del Partito popolare repubblicano, si è fermato al 40 per cento. In più 49 delle 81 province turche. Insomma una sconfitta su tutto il fronte per l’opposizione; il Chp, il principale partito anti-Erdogan, che si ferma al 27,91 per cento, il partito nazionalista Mhp al 15,17 e l’indipendentismo curdo al 3,74.

A margine dell’evento, all’interno del seggio di Erdoğan, non è mancato un siparietto con annesso grottesco show da parte delle Femen turche.

Insomma un trionfo del sultano cui, nella stessa giornata, riecheggia un altro trionfo in Francia, quello del Front National di Marine Le Pen. Una giornata veramente difficile da digerire per tutta quella stampa che aborrisce l’anti-Europa.

D’altronde, come scrive Augusto Grandi, il rapporto con l’estero è sempre molto difficoltoso per l’Italia. E se i giornalisti confondono i loro sogni schierati con la realtà, dal governo del burattino Renzi arrivano altri segnali che confermano non solo la scarsa preparazione e l’ancor minore lungimiranza, ma anche la totale incapacità nel distinguere ciò che è becera propaganda con ciò che è utile o inutile per il Paese[2].

Per non parlare poi del doppiopesismo che da noi è un’eredità indelebile. Quello che si critica ad Erdoğan, da noi è prassi consolidata: golpe, tangentopoli sommerse e quant’altro.

Il voto in Turchia è l’espressione, secondo le regole della democrazia, della volontà della maggioranza dei turchi, che, in primo luogo non sembra per niente coincidere con la volontà di quei gruppi di istigatori pseudorivoluzionari, protagonisti delle proteste dell’estate scorsa. Quindi di un’economia, che, nonostante le recenti fluttuazioni e per quanto sia evidente un tentativo di destabilizzazione del Paese da parte di forze esterne – peraltro più volte denunciato da Erdoğan – rappresenta sempre la carta vincente del suo successo.


[1] Türkiye-Rusiya arasında çok hassas imza, 6 agosto 2009, http://www.cnnturk.com/2009/ekonomi/genel/08/06/erdogan.putin.berlusconi.bir.arada/537925.0/index.html e Erdogan firma con Putin: sì turco per Sputh-Stream, Sole 24 Ore, 7 agosto 2009.

[2] http://girano.blogspot.it/2014/03/dalla-turchia-alle-ambasciate-italiane.html?spref=fb

 

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it