IL MODELLO AMERICANO

I fatti di questi giorni, l’implosione del PD, i franchi tiratori, la slealtà di molti deputati hanno avuto – tanto per cambiare – la capacità di distogliere lo sguardo dai temi più fondamentali e fondanti del dibattito politico italiano. Uno di questi è – tanto per sceglierne uno – quello sulle culture politiche in campo e si potrebbe riassumere nella questione: quali culture politiche si confrontano oggi in Italia? Una sotto-questione, subordinata a quella, è poi: quali culture politiche si confrontano dentro al PD? Ovvero: cosa è il PD? Di cosa cerca di essere la sintesi? In quale misura riesce ad essere la sintesi? E così via.

Quando la cosiddetta “prima repubblica” cominciò a sciogliersi, pochi anni dopo la caduta del muro di Berlino e della disfatta del comunismo (o almeno di quello europeo), a molti sembrò irrinunciabile, necessario ripensare la democrazia italiana dentro uno schema mutuato dalla storia americana: due grandi schieramenti che si fronteggiano – democratici e repubblicani – la differenza fra di essi consistendo non nei principi fondamentali o in assunti ideologici di fondo quanto nella strategia politica e nei programmi sociali ed economici utilizzati. Con un minimo di sfumature e di connotazioni valoriali tali da permettere di definire i primi un po’ più a sinistra e i secondi un po’ più a destra.

Un modello dietro il quale non c’è una storia ribollente, magmatica, percorsa dai mille tracciati di quella che, nella cultura europea, si dice “lotta di classe”. Solo una storia il cui punto lacerante era stato una guerra civile sanguinosa e devastante utile solo a stabilire quale modello di capitalismo dovesse imporsi: quello agrario/finanziario del sud o quello industriale del nord. Con lo schiavismo a coprire, col suo manto ideologico, le vere assiomatiche ragioni del conflitto.

Dentro tale modello, infinitamente più semplice di quanto fosse necessario per contenere la complessità culturale europea, si pensò di costringere soprattutto le due anime del cattolicesimo sociale (la DC) e del socialismo reale (il PCI, che nel frattempo era diventato PDS e poi DS, in un crescendo orgasmico di rinunce e di abiure). Entrambe da frullare dentro ad un unico contenitore, nella certezza che il composto si sarebbe amalgamato e si sarebbe definitivamente caratterizzato come “la sinistra”, di contro ad un altro schieramento dentro cui si sarebbe coagulata la infinita varietà dei conservatori (i repubblicani di americano stampo….).

Come sia andata è sotto gli occhi di tutti: il cosiddetto bi-partitismo (il cui pendant elettorale doveva essere la rinuncia al proporzionale e la felice adesione al maggioritario) non si è realizzato, una parte consistente della sinistra e della destra è uscito dalla rappresentanza parlamentare, polverizzandosi in mille identità senza l’elemento coesivo di un partito forte ispirato da una teoria politica forte,  ciò che è rimasto dentro alle istituzioni si è aggregato in un numero imbarazzante di poli, la governabilità è diventata enormemente più precaria.

Dentro al PD, che doveva essere l’esperimento più mirabile della sintesi “americana” (il sogno di veltroniana memoria, dentro cui Kennedy era più carismatico di Marx), si sono trovate a convivere anime lontane, legate solo dal ricordo di poche comuni battaglie sociali e distanziate dalla consapevolezza delle tante differenze ideologiche (anche su temi civili come il divorzio o l’aborto, per fare un esempio).

In breve, non è riuscito a tavolino quello che Moro e Berlinguer stavano provando a fare venti e più anni prima nel paese e che servizi segreti da una parte e brigate rosse dall’altra gli hanno impedito.

E’ probabilmente giunto il momento di riconoscere che un eccesso di semplificazione produce paradossalmente più caos, che una vera significativa forza di sinistra può solo riprendersi l’orgoglio e la dignità di un patrimonio ideale e culturale che è quello socialista (nel senso lato del termine) e marxista, che da quando esiste questo paese l’altra parte è sempre in qualche modo impegnata a impedire un reale progresso sociale, nel segno dell’eguaglianza, della ridistribuzione della ricchezza, del riscatto del lavoro.

Che l’altra parte si possa chiamare DC, Forza Italia, PDL poco cambia: finora è stata sempre maggioranza e tale resterà, almeno fino a quando ci sarà una sinistra che rinuncia alle sue radici e che si propone come contenitore vagamente, squisitamente, educatamente democratico.

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