“GESU’ AL BAR” di LUCA FARRUGGIO – 2010

        Nel tempo intorbidito della contemporanea quotidianità, la frequentazione dei percorsi ovattati della poesia appare sempre più irrimediabilmente periferica, quasi una sorta di riserva indiana nella quale provare a collocare il passaggio, a volte incauto, sempre affascinante, tra la metafisica e l’ossessione della realtà.  Ci prova con sapienza e con autentica spietata lettura di se stesso, in questa preziosa breve silloge poetica, “Gesù al bar” (& MyBook – 2010) il giovane Luca Farruggio (nella foto), filosofo, laureato al San Raffaele di Milano, dove si sta specializzando in filosofia della storia, e che ha già al suo attivo un’altra raccolta poetica, “Bugie estatiche”, ed un intrigante prova di narrativa, “La scomparsa di Colmapotra”.  E ci prova con lucida maturità, nonostante la giovane età (Luca Farruggio è nato a Catania nel 1984), chiamando a raccolta i suoi maestri, da Massimo Cacciari a Manlio Sgalambro, al preziosissimo Tommaso Landolfi, e procedendo in una direzione che costringe il lettore a rivedere la propria dimensione esistenziale. Affolla la prima parte di figure, e scarnifica i volti ed i gesti di un irrinunciabile Francesco d’Assisi, si aggancia timoroso alla grandezza incantata di Alda Merini, rievoca la grande letteratura, si spezza davanti alla fragilità del dimenticato, dell’esule, dell’anonimo viandante, perché nella logica imperante del consumismo e del diktat mercificante anche i nuovi dialoghi tra Gesù e Pilato e Giuda e il mondo trovano la apparente banalità brutalizzata di un bar rumoroso e di un silenzio assordante. Poi è il tempo del vuoto e della riscattante catabasi, verso la luce e oltre il buio, ma con la consapevolezza di antologizzare e schedare i sogni e le illusioni, i silenzi e le rinunce, la dimensione onirica del mistero accanto alla certezza della redenzione. In questo spazio che è racchiuso tra un prima ed un dopo ed è il presente irrisolvibile, Farruggio è in spietata autoanalisi, ma si fa testimone ed apostolo di una nuova speranza. Quella stessa che subito dopo, nella terza conclusiva parte del libro, lo conduce verso gli amori, verso la intensità della relazione umana, verso la ricchezza del sorriso e del provare a  capirsi, dove è più importante a volte la parola che l’essere compresi, perché “mi hai lasciato il pensiero/ che solo il sogno è reale,/ ma mi hai donato pure / il bisogno di amare…”. E quando il poeta rilancia l’appuntamento della vita al prossimo dolore, è intensa la lancinante ferita dello scoraggiamento, ma è anche superata la dimensione dell’irrisolto, perché il bar della quotidianità si affollerà dei tanti Gesù di una convinta resurrezione.  (CARMELO AREZZO)

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